Si è abbattuto con tutta la sua furia nella baia del Bengala il ciclone Phailin e ora sono a migliaia i dipendenti della Forza nazionale (Ndrf) al lavoro negli Stati indiani di Orissa e Andhra Pradesh. Secondo quanto si apprende, sarebbero una decina le vittime della sua furia, con la maggior parte della popolazione che si è messa in salvo grazie alla tempestiva allerta. Notevoli, invece, i danni materiali. Phailin, che è stato considerato il più spaventoso ciclone che si sia abbattuto in India negli ultimi 14 anni, Phailin ha raggiunto la costa accompagnato da piogge e venti con folate di 200 chilometri orari.
Dei 10 morti, otto erano stati segnalati già ieri, nelle ore precedenti all’impatto, a cause dei forti temporali accompagnati da violente folate di vento che hanno provocato numerosi danni, a causa anche della ceduta degli alberi. L’arrivo di Pailin ha provocato ingenti danni alle infrastrutture, l’interruzione dei trasporti aerei e ferroviari, e la sospensione dell’erogazione della corrente elettrica, che continuava stamani, anche a Bhubaneswar, capitale di Orissa.
Com’era stato previsto dall’Imd, il Dipartimento meteorologico indiano, il ciclone, giunto sulle coste indiane attorno alle 21.30 di ieri, ora locale, è avanzato all’interno dello Stato di Orissa ad una velocità di 200 chilometri orari, perdendo forza al punto da diventare una semplice depressione tropicale.
Il ciclone Phailin oggi ha toccato le coste degli Stati di Orissa ed Andhra Pradesh (India occidentale), con piogge battenti e venti superiori ai 200 km/h. Nonostante siano più di mezzo milione le persone evacuate, potenzialmente sono almeno 12 milioni quelle che vivono nella zona dove il ciclone, considerato della categoria massima e simile a Katrine che nel 2005 flagellò le coste della Florida, sprigionerà la parte più distruttiva della sua progressione. Rathore, direttore generale del Dipartimento di meteorologia indiano (Imd) che ha dato l’annuncio dell’impatto, ha aggiunto che l’oceano Indiano produrrà nel momento più acuto del fenomeno onde alte 3-3,5 metri, con un ingresso dell’acqua marina per almeno 600 metri all’interno del territorio. Oltre ad aver provveduto all’evacuazione, il governo centrale ha decretato l’allarme rosso per Orissa e Andhra Pradesh, ponendo in stato di allerta le forze armate, pronte ad intervenire in caso di necessità. Per quello che riguarda i danni, le autorità ritengono che la maggior parte si concentrerà nel distretto di Ganjam, in Orissa: qui si trova il 40% dei soccorritori dello Stato. Nel frattempo l’aeroporto di Bhubaneswar, capitale dell’Orissa, ha sospeso tutti i voli in arrivo ed in partenza. Cancellati anche decine di collegamenti ferroviari in arrivo o in partenza dalle localita costiere. Si è stimato che sono almeno otto le persone morte ancora prima dell’arrivo di Phailin sulla terra ferma. Questo a causa degli intesi temporali e delle forti raffiche di vento. Secondo la Protezione civile, sarà possibile procedere a una prima valutazione delle vittime e dei danni solo dopo l’alba di domani.
Torna la paura in India per il super ciclone che si sta velocemente avvicinando nella Baia del Bengala verso le coste dell’India occidentale e toccherà terra nel tardo pomeriggio italiano. Il governo centrale ha lanciato un ”allarme rosso” per i due Stati di Orissa e dell’Andhra Pradesh: almeno 525.000 persone che vivono nelle città e nei villaggi della costa verso sono state evacuate verso i rifugi all’interno del territorio. Già tre morti sono stati registrati in Orissa a causa del forte vento che ha determinato la caduta degli alberi. I media stanno seguendo il fenomeno in diretta e si spera che questa volta il tifone non porti morte e distruzione come quello che si abbatté nel 1999 sulla città di Orissa e provocò 10mila morti. Secondo il Dipartimento meteorologico di New Delhi, Phailin produrrà anche onde alte 3-4 metri e le raffiche di vento saranno tra i 200-220 km/h, con punte di 240.
In Cina si muore per le scorie chimiche anche a distanza di anni. Per l’esattezza sono 4 anni che l’impianto chimico Xianghe nella cittadina agricola di Zhentou nella provincia cinese dell’Hunan ha chiuso, ma le persone continuano a morire di cancro causato da esposizione a metalli pesanti. Troppe morti e se i giovani cercano di fuggire altrove chi rimane davanti a se a poche speranze di rimanere in vita. Gli agricoltori hanno smesso di vendere i loro prodotti, che in quella zona della Cina, sono l’unica risorsa per vivere da quando l’impianto ha chiuso e molti sono stati licenziati. Quel terreno è inquinato e la pioggia è veleno, come si può vivere a contatto con un inquinamento così massiccio? Naturalmente le autorità locali negano, anzi ribattono che hanno speso 16 milioni di yuan per la pulizia del suolo e hanno fatto sapere che ora la terra è stata bonificata e può essere coltivata di nuovo. Ma la gente non ci crede. Lo scorso anno alcuni abitanti hanno sottoposto un campione di terreno ad una analisi presso un laboratorio privato. I test hanno rivelato un livello di cadmio di 93,8 milligrammi per chilogrammo laddove in base alle norme nazionali i terreni agricoli dovrebbero contenere non più di 0,3-0,6 milligrammi di cadmio per chilogrammo.
Ma i funzionari locali sostengono che tutte le prove addotte sono prive di scientificità. Il governo locale ha offerto un unico risarcimento di 3.800 yuan (circa 400 euro) per tutti i residenti che vivono in un raggio di 500 metri del sito incriminato indipendentemente dal loro stato di salute oltre ad un pagamento una tantum di 1.200 yuan per ogni pezzo da 667 metri quadrati di terreni agricoli di proprietà di abitanti del villaggio. Ma per ottenere tali somme i residenti hanno dovuto firmare un accordo promettendo di non aderire ad eventuali petizioni o proteste.
Pagati per rimanere in silenzio? Morire nell’assoluta indifferenza?
Per capire la gravità del fenomeno basta analizzare la popolazione presente in uno dei tre villaggi quando nel 2004, prima dell’apertura dell’impianto chimico destinato a produrre indio, un metallo utilizzato nei pannelli solari e negli schermi a cristalli liquidi, la popolazione raggiungeva circa le 1000 unità, oggi ne sono rimaste circa 300.
Si iniziò una dura lotta tra le autorità e la popolazione locale, tanto che la notizia non poté essere passata sotto silenzio ed ebbe rilievo nazionale. Nel 2009 l’impianto fu chiuso e allora le autorità furono costrette ad ammettere che alcune persone erano morte di cancro per esposizione a metalli pesanti ma da sempre gli abitanti della zona sostengono che il numero reale delle persone colpite è due o tre volte superiore al numero ufficiale. Ora gli abitanti hanno iniziato a compilare delle proprie liste: ogni volta che muore una persona viene appurata se la morte è stata causata dal cancro e a quel punto viene inserita nella lista.
La Cina naturalmente non vuole ammettere che probabilmente la bonifica che è stata fatta non è stata sufficiente e che i danni dell’impianto si propagano anche a distanza di tempo. Servirebbero davvero interventi risolutivi, ma naturalmente i prezzi potrebbero essere molto elevati e soprattutto far nascere il sospetto che l’industrializzazione cinese è stata pagata soprattutto in termini di vite umane da molti agricoltori che vivevano a ridosso di fabbriche inquinanti. Anche se la Cina ha iniziato un processo di disinquinamento quanti anni occorreranno per bonificare i terreni inquinati? Quante persone moriranno nell’indifferenza? Quanti si cercheranno di far tacere dando un magro contributo e chiedendo in cambio l’assoluta connivenza con questo disastro ambientale?
Forti nevicate, diffuse in tutto il paese, hanno paralizzato l’Ucraina. Nella capitale Kiev – dove la neve ha raggiunto 50 centimetri nelle ultime 24 ore – e’ stato decretato lo stato di emergenza. Sono piu’ di 380 – secondo le autorita’ ucraine – i villaggi e le localita’ rimasti al buio, in particolare nelle regioni di Lviv, Dnipropetrovsk e Ivano-Frankivsk.
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