Enrico Letta e le sue vacanze oltre confine

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L’Italia è in ripresa, almeno secondo il Presidente del Consiglio che ora si concede una vacanza fuori dai confini italiani. La meta naturalmente è top secret, ma Enrico Letta, insieme alla moglie e ai tre figli si è imbarcato su un aereo Alitalia decollato da Roma Fiumicino e atterrato alle 16.05 di sabato allo scalo di Ronchi dei Legionari per spingersi poi in Croazia o in Slovenia.

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La dimenticanza di Cameron che mette a rischio la sicurezza mondiale

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Una banale dimenticanza, ma se accade al Primo Ministro con i documenti riservati – in un periodo, come quello che stiamo vivendo in cui ci sono tensioni elevate e la possibilità di un attacco in Siria -può davvero diventare pericolosa. David Cameron avrebbe infatti dimenticato una “red box”, cioè una valigetta con i documenti riservati e top secret in uno scompartimento del treno che lo stava portando nello Yorkshire per  partecipare a un matrimonio. Inoltre il Primo Ministro inglese avrebbe lasciatoa nceh inserita la chiave per aprire la “red box”. A denunciarlo con uan foto postata in rete un passeggero che ha visto rimanere incustodita su un tavolo, mentre il Cameron si era allontanato. Dopo lo scatto le polemiche non sono mancate, anche perché, secondo alcuni, con ogni probabilità, in quella valigetta c’erano dei documenti riguardanti la Siria.

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Ustica… il Mig23 libico cadde la notte della strage

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Il maresciallo Giulio Linguanti ha 76 anni e nel 1980 era forza al reparto del Sios Aeronautica nell’aeroporto di Bari. La sua memoria è limpida così come è logico il suo pensiero:

“Quando sarà, io me ne voglio andare con la coscienza a posto. Perché se lassù incontrerò anche uno solo di quegli ottantuno poveretti che stavano sull’aereo, non voglio che mi sputi in faccia”.

Nel 1982 Giovanni Spadolini parlò su Ustica:

“Risolvete il giallo del Mig23 e avrete trovato la chiave per scoprire la verità su Ustica”

E quella verità forse potrebbe conoscerla proprio Linguanti che per un mese, per ben due volte, organizzò sulle montagne della Sila il recupero del Mig23 libico. Lì i vermi lunghi cinque centimetri avevano fatto il nido nel cadavere già putrefatto del pilota, non precipitò il giorno del suo ritrovamento ufficiale (18 luglio) ma almeno tre settimane prima. Probabilmente il 27 giugno, la stessa sera dell’abbattimento del DC9 Itavia.

 Nell’intervista rilasciata dal maresciallo all’Huffington Post ripercorre quella ricognizione sulla Sila:

“Arrivai sulla Sila la notte del 18 luglio, insieme a un altro sottufficiale di Bari. È caduto un aereo libico e a Roma vogliono sapere, ci dissero. Era tardi, andammo a dormire in una caserma dei carabinieri. La mattina dopo, mentre preparavo la macchina per raggiungere Castelsilano, arrivò un appuntato che aveva appena partecipato alla sepoltura del pilota del Mig23. Era stravolto, ci mancava poco che vomitasse. Puzza che non ci si può stare vicino, diceva. Strano, pensai. Io ne ho visti di morti. E anche se fa caldo, dopo appena un giorno nessun cadavere è ridotto a quel modo”.

Si schiantò su un costone di roccia a strapiombo, l’aereo militare libico e per raggiungerlo il Linguanti camminò per   chilometri in mezzo a un bosco.

“Da lontano pareva un camion ribaltato, con le ruote in aria. Era grosso e praticamente intatto. Tanto che quando dopo un mese lo portarono via, dovettero spezzare le ali. Altra cosa strana, perché un caccia che va dritto per dritto contro un muro di roccia normalmente finisce in pezzi. Poi vidi dei buchi sulla coda, fori di cannoncino. Tornando in macchina verso il paese, lo dissi al colonnello Somaini. Li ha visti anche lei? Lui girò la testa vago, guardò il cielo e fece: mah, chissà da che parte è arrivato ‘st’aereo… E capii subito che di quella faccenda dei fori era meglio non parlare”.

Prima di quell’estate, i libici Linguanti li aveva già visti volare e pure atterrare in tranquillità sul territorio italiano.

“Una volta ci ritrovammo una intera squadriglia di elicotteri di Gheddafi sull’aeroporto di Bari. Mandammo gli equipaggi in mensa e scattammo più foto che potevamo”.

Non fu un episodio isolato.

Secondo il maresciallo i piloti di Gheddafi si addestravano a Galatina alla scuola di volo dell’Aeronautica. I mig atterravano spesso, ma c’era il divieto di diffondere questa notizia, perché al tempo Gheddafi era un nemico italiano, ma soprattutto il numero uno dei nemici sia per francesi che per americani. L’Italia che ufficialmente era distante dalla Libia in realtà aveva molti interessi economici e più di una volta salvò la vita al comandante libico, forse anche la notte della strage di Ustica.

Il Linguanti ricorda ancora:

“C’erano rottami sparsi ovunque. Anche se appena arrivammo la cloche era già sparita, e chissà chi e quando se l’era portata via”.

Chi la portò via? Non era facile scendere da quel punto tanto che il Genio fece uno sterrato per facilitare poi le operazioni.

Ma gli americani che ruolo ebbero? Racconta ancora l’Huff:

Altra storia quella dell’Americano spedito di corsa a ispezionare il relitto, che alcuni ritengono fosse il responsabile di una squadriglia di Mig “donati” da Sadat agli Stati Uniti dopo l’abbandono del padrinato sovietico. E altri pensano fosse il capostazione della Cia a Roma: Duane “Dewey” Clarridge, l’uomo che durante lo scandalo Iran-Contras (armi a Teheran in cambio di denaro per i controrivoluzionari in Nicaragua) stava per mandare a casa Reagan con un impeachment e fu graziato da George Bush senior il giorno prima di lasciare la Casa Bianca, l’uomo che secondo il Washington Post non lavorava per gli interessi degli Stati Uniti ma “solo per quelli della Cia”. In una intervista che gli avevo fatto a bruciapelo, Clarridge aveva messo in crisi la versione del governo italiano sulla caduta del Mig23 sostenendo di aver mandato i suoi uomini sulla Sila il 14 luglio, quattro giorni prima del ritrovamento ufficiale. Lo confermò anche a Priore, durante una rogatoria a Washington, ma ritrattò tutto nel processo contro i generali dell’Aeronautica accusati per depistaggio e poi assolti. Mostro a Linguanti la foto di Clarridge sull’Iphone. “È lui. L’ho portato io a vedere l’aereo. È rimasto un paio d’ore. Gli avevo organizzato anche un panino e una bottiglia d’acqua. Ha solo bevuto, il panino me lo sono mangiato io alla sua salute”.

Altri dettagli agghiaccianti riguardano il giorno dell’autopsia del cadavere del pilota. Fu dato ordine al maresciallo di fare una consegna “speciale” a un colonnello che veniva da roma a bordo di un elicottero proprio per prendere in consegna alcuni resti di quel cadavere.

“Mi diedero un barattolo pieno di formalina con dentro un dito e il pene di quel poveretto e un fumogeno per segnalare all’elicottero dove sarebbe dovuto atterrare. Mi dissero che servivano per le impronte digitali e per accertare se fosse circonciso. La cosa mi faceva un po’ schifo, trovai un pezzo di carta geografica e la arrotolai intorno al barattolo, accesi il fumogeno e per poco non prendeva fuoco il campo. L’elicottero arrivò, io consegnai il barattolo e ripartirono subito”.

Di quei resti poi non si è saputo più nulla… inghiottiti dal segreto di stato.

“Dopo un mese passato in quel posto, mi fu chiaro che quell’aereo non era caduto il giorno in cui avevano detto di averlo ritrovato. Era caduto molto prima, la stessa sera della strage di Ustica, era stato colpito e tutto quello che vedevo davanti ai miei occhi era solo una messinscena. Io sono fiero di avere servito l’Aeronautica, ma mi vergogno delle bugie che sono state dette da alcuni miei superiori. Ho una coscienza e me la devo tenere pulita fino alla fine. Per me e per i miei figli. Costi quel che costi”, così afferma Giulio Linguante.

Nel processo il maresciallo fu delegittimato in ogni modo, fu fatto a pezzi dagli avvocati della difesa, ma di su di lui il giudice istruttore Priore scrisse:

“Questo teste appare uno dei rarissimi che riferiscono fatti e notizie, mostrando ottima memoria e completo distacco all’Arma di appartenenza. Delle sue dichiarazioni dovrà tenersi conto in più occasioni, dalle considerazioni sullo stato del cadavere a quelle sul relitto”.  

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Sulla strage di Ustica qualcuno mente, ma chi? C’era una portaerei!

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27 giugno 1980. Attorno alle 20.50 Domenico Gatti, comandante dell’aereo Dc9 I-Tigi decollato dall’aeroporto di Bologna e diretto a Punta Raisi, saluta, per quella che sarà l’ultima volta, i 77 passeggeri del volo e i suoi 3 colleghi. Alla vigilia del 33° anniversario della strage di Ustica, Stragi80.it, l’archivio storico-giornalistico creato dai giornalisti Daniele Biacchessi e Fabrizio Colarieti, ne ha pubblicato l’audio:

“Signore e signori, buonasera”, dice Gatti, “brevi informazioni sul volo dalla cabina di pilotaggio. Stiamo procedendo a una quota di 7500 metri e circa due minuti fa abbiamo lasciato l’isola di Ponza per volare in linea retta su Palermo, dove stimiamo di atterrare tra circa mezz’ora. Il tempo, procedendo verso sud, è in miglioramento. Per cui a Palermo è previsto tempo buono e visibilità ottima, temperatura di 22 gradi e leggero vento”.

Nessun problema quindi, dopo il ritardo di un paio d’ore con cui quel volo è iniziato poco prima. La conferma arriva anche durante la comunicazione al centro di controllo di Ciampino: “Abbiamo lasciato Ponza”, annuncia chi sta portando quell’aereo a Palermo. “Molto gentile, grazie”, gli risponde l’operatore all’altro capo della comunicazione. E Gatti aggiunge: “È assolutamente a posto”. Risponde a un addetto alla manutenzione dell’Itavia che lo contatta via charlie, la frequenza dedicata agli equipaggi, per chiedergli conto delle condizioni dell’aereo. Alle 20.58. il Dc9 entra nel punto Condor, nel tratto sopra il mare tra l’isola di Ponza e quella di Ustica. Un minuto dopo, l’aereo scompare dai radar. Nell’agosto 1999 il giudice istruttore romano Rosario Priore ha presentato il risultato della sua inchiesta: quell’aereo fu abbattuto, ha stabilito la Corte di Cassazione nel gennaio 2013, da un’azione di guerra. Ma manca ancora un tassello: la nazionalità dell’aereo militare da cui partì il missile che provocò la morte di 81 persone.

I magistrati sono certi al “mille per cento” che ci fosse una portaerei nel triangolo di mare tra Napoli, la Sardegna e Palermo, quella notte, e che sicuramente ha “visto”, tramite radar, e probabilmente era coinvolta nello scenario di guerra nel quale il DC9 Itavia fu abbattuto per errore. Poi si è allontanata, dopo l’esplosione, insieme al convoglio di navi d’appoggio da cui era circondata. Questo risulta dalle carte che la Nato ha inviato alle autorità, dai grafici radar che mostrano le tracce di velivoli ed elicotteri militari che originano dal mare e in mare spariscono prima, durante e dopo la strage, dalle rilevazioni dei controllori di Roma-Ciampino che quella notte videro un traffico intenso di caccia nel Basso Tirreno tra Ustica e Ponza e dalle ultime testimonianze dirette di piloti e assistenti di volo che viaggiavano sulla stessa rotta del DC9 prima dell’esplosione e interrogati negli ultimi mesi. Ma Maria Monteleone e Arminio Amelio, i magistrati della Procura di Roma che indagano sulla strage, hanno qualcosa di più concreto, coperto dal riserbo, per affermare che in quello scenario di guerra si trovasse anche una portaerei. Ora è necessario scartabellare gli archivi della Marina militare, in cerca di annotazioni o occultamenti sui movimenti, che dovevano essere registrati e capire chi mente: Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna continuano a ripetere, infatti, che nessuna delle loro navi si trovava nella zona in cui avvenne la strage. Erano gli anni in cui una forte tensione gravava sul Mediterraneo, gli stessi delle minacce di Gheddafi, all’epoca acerrimo nemico degli USA, ma il Pentagono ha sempre dichiarato che il 27 giugno 1980 la portaerei USS Saratoga (CV-60), comandata dall’ammiraglio James H. Flatley III, rimase in rada a Napoli con i radar praticamente spenti per non disturbare le frequenze televisive. In tutto questo il Deck Log, il libro mastro sull’attività di bordo della Saratoga, presentava delle anomalie sospette proprio nel giorno della strage: è stato compilato da uno stesso ufficiale per cinque turni consecutivi di quattro ore (dalle otto di mattina in poi). L’ammiraglio si giustificò spiegando che si trattava di una “bella copia” redatta a posteriori, atteggiamento non in linea con i severi regolamenti della US Navy. Sul fronte francese, le autorità affermano che sia la porte-avions Clemenceau (R 98), al comando dell’ammiraglio Jean de Laforcade, che la sua gemella Foch (R 99), comandata dall’ammiraglio Alain Coatanea, la notte del 27 giugno 1980 erano in porto o al largo della base di Tolone: molto lontane dal mare di Ustica quindi. Le affermazioni non sono facili da verificare, quello che è certo è che la Foch si trovasse a Palermo alla fine di maggio e la Clemenceau in porto a Propriano (Corsica) il 7 e 8 giugno. In compenso, l’operativo della fregata lanciamissili Duquesne, quasi sempre al seguito delle due imbarcazioni, fornisce dettagli molto interessanti: a giugno la partecipazione a una missione di squadra Rialto, seguita da un’esercitazione Dasix con i caccia de Armée de l’Air e con la Saratoga. I magistrati italiani sono riusciti comunque ad ottenere di interrogare 14 militari che la notte del 27 giugno 1980 erano in servizio nella base di Solenzara in Corsica da dove, nonostante le smentite di Parigi, alcuni caccia individuati anche dalla Nato decollarono diretti verso il Basso Tirreno. Nel 2007, fu Francesco Cossiga a fare delle rivelazioni poi messe a verbale: secondo l’ex presidente ad abbattere il DC9 con un missile aria-aria “a risonanza e non a impatto” fu un caccia decollato proprio da una portaerei dell’Armèe de mer, mentre tentava di intercettare e colpire un aereo libico con a bordo il colonnello Gheddafi. “Credo però che non si saprà mai nulla di più. La Francia sa mantenere un segreto e si è sempre rifiutata di rispondere alle nostre domande. L’altro Stato coinvolto è l’ex Unione Sovietica”, dichiarò Cossiga.

Ma molte sono ancora le zone d’ombra: alcuni caccia di nazionalità belga si trovavano sulla base di Solenzara, ma il Belgio ha opposto un rifiuto alle domande dei magistrati per “motivi di sicurezza nazionale”. Mentre la Libia, nel caos dopo la fine del regime di Gheddafi, non ha mai ufficialmente risposto alle richieste delle nostre autorità. Silenzio anche da parte del maggiore Abdel Salam Jalloud, per 24 anni braccio destro del colonnello e poi passato all’opposizione a pochi giorni dalla sua esecuzione. Il maggiore ora vive nel nostro Paese, protetto dai nostri servizi segreti, ma non ha risposto alle domande poste dai magistrati. Anzi, al termine dell’incontro si sarebbe persino rifiutato di firmare il verbale.

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Ustica nuove rivelazioni, parla una hostess scampata al disastro

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Sembra incredibile che nel 2013 ancora non si sia fatta chiarezza su uno dei segreti di stato più contestati della storia della Repubblica italiana. Ora una hostess, ex dipendente dell’Itavia, racconta a Tgcom24 come è scampata al disastro di Ustica, il 27 giugno 1980. “Sentivo qualcosa che mi diceva di tornare a casa – testimonia a Top Secret, il programma-inchiesta a cura di Claudio Brachino – e così è stato, ho inventato una scusa, ho detto che stavo poco bene e non sono salita su quel volo. Quella bugia mi ha salvato la vita”. Poi, in un intervista al giornalista Giampiero Marrazzo, direttore responsabile del quotidiano Avanti spiega: “Ho pensato di far sentire la mia verità, perché per me è un peso importante”.

Ma la verità più agghiacciante è il racconto che la donna fa del giorno prima del disastro. Dalla sua memoria emergono dettagli veramente allarmanti. Il 26 giugno 1980, appena 24 ore prima che il Dc-9 fosse disintegrato, la hostess si trovava sul volo  Bologna-Palermo e ricorda che la chiamò il primo ufficiale pilota per vedere quello che stavano sorvolando: “Guardai dal finestrino della cabina di pilotaggio e vidi una nave enorme, seppi poi, proprio dal pilota, che si trattava di una portaerei. Mi disse che poteva trattarsi di una portaerei americana, ma forse era solo una sua intuizione”. “Il pilota – prosegue la hostess – quasi scherzando, mi disse: meno male che ci siamo noi, piloti veterani, altrimenti ci silurano”. Un altro testimone, un pilota di un volo di linea Alitalia, il 2 aprile ha dichiarato di aver sorvolato i cieli di Ustica e di aver notato “pochi minuti dopo il decollo dall’aeroporto di Palermo, una flottiglia di navi, una che sembrava una portaerei e almeno altre tre-quattro imbarcazioni”.

Se le tesi della hostess fossero confermate è chiaro che il disastro di Ustica avrebbe ora una lettura più chiara e si farebbe luce sui veri colpevoli della strage. 
 

 

L’assedio di Roma… domani la convention dell’M5S. Top secret il luogo.

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E’ fissata per domani la convention a Roma dell’M5S.Anche se alcune fonti dicono che già da questo pomeriggio inizieranno gli incontri. Non è ancora chiaro se Beppe Grillo, che è nella sua casa al mare a Marina di Bibbona, sarà presente sin da subito o se si unirà ai suoi direttamente lunedì.

Al vaglio veranno prese decisioni importanti su come gestire la complessa situazione politica.  Il luogo resta un segreto.

L’eroe o l’antieroe? Bradley Manning, un esempio!

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Dieci volte colpevole di aver violato i regolamenti militari, ma non le leggi federali sull’aiuto al nemico: il soldato Bradley Manning ha cercato di evitare il carcere a vita offrendo al giudice della Corte Marziale di Fort Meade in Maryland una dichiarazione di colpevolezza per dieci capi di accusa minori sui 22 spiccati nei suoi confronti.
Leggendo da una ‘memoria’ di 35 pagine, Manning ha dichiarato di aver agito di sua spontanea volontà, «non su pressioni di Wikileaks» quando ha passato al sito-anti segreti di Julian Assange centinaia di migliaia di documenti top secret del Dipartimento di Stato e del Pentagono. Il soldato ha rivelato di averlo fatto «perchè il pubblico doveva sapere», e solo dopo aver tentato di offrire lo stesso materiale al Washington Post e al New York Times senza ricevere risposta.
«Pensavo che se il pubblico avesse avuto accesso alle informazioni si sarebbe aperto un dibattito sul ruolo delle forze armate e della politica estera», ha dichiarato Manning. In licenza a Washington dalla ferma in Kuwait, il soldato aveva tentato di contattare il quotidiano della capitale con l’offerta di «materiale enormemente importante per il popolo americano».
Non fu preso sul serio dalla sua interlocutrice. Ancora più frustrante il contatto con il New York Times dove Manning era arrivato a parlare solo con tante segreterie telefoniche. «Non pensavo che avrei danneggiato gli interessi americani, solo messo in imbarazzo il governo rivelando i retroscena dei suoi contatti internazionali», ha spiegato a proposito del cosiddetto ‘Cablegate’. Quanto ai ‘warlog’ dell’Esercito da Iraq e Afghanistan, il movente della fuga di notizie era stato di spiegare «i veri costi della guerra».
Tante le gocce che avevano fatto traboccare il vaso, ma soprattutto il video dell’attacco di un elicottero Apache su civili iracheni: «La reazione dei militari americani a bordo mi sconvolse. Parlavano dei bambini uccisi come “bastardi mortì”». Spetta adesso al giudice militare, colonnello Denise Lind, decidere se accettare la dichiarazione di colpevolezza di Manning. Ma anche se la Lind accoglierà la richiesta del soldato, i procuratori militari potrebbero decidere di aprire una nuova corte marziale nei confronti della talpa di Wikileaks sui rimanenti capi di accusa, compreso quello di aiuto al nemico che ha il potenziale di far passare a Manning il resto dei suoi giorni in prigione.

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