
Nell’ultimo anno Jamila Assafa, 30 anni, aveva bussato numerose volte alla stazione dei carabinieri di Budrio, in provincia di Bologna. Presentava querele contro il marito Abderrahim Qablaoui, 53 anni, raccontava che l’uomo non si occupava adeguatamente della famiglia, denunciava ingiurie e minacce, un giorno aveva portato un referto medico per le botte ricevute. «Semplici graffi», dicono ora i militari, che spesso erano intervenuti a sedare i litigi della coppia.
Venerdì sera Qablaoui ha preso un coltello e durante un’ennesima lite ha ucciso Jamila, piantandole la lama nel cuore. I vicini hanno udito un urlo sovrumano, poi lo hanno visto fuggire in auto con i due figli, il primo di due anni, il secondo di quindici mesi. Soltanto nella notte l’uomo si è costituito presso la stessa caserma dei carabinieri, raccontando che quella sera la moglie lo aveva rimproverato per averla trattata male di fronte ai parenti
Di nuovo discussioni, grida, poi il delitto.
La famiglia Qablaoui era seguita dai servizi sociali di Budrio, specialmente da quando Abderrahim aveva perso il lavoro. Jamila rimaneva in casa, sperando che il marito raggranellasse qualche soldo con piccoli mestieri occasionali. I litigi erano continui. Tra pochi giorni sarebbero stati sfrattati dall’alloggio fornito dal Comune, la tensione famigliare era altissima.
«Assafa era una donna decisa, con un carattere forte», la descrivono i carabinieri. Forse per questo motivo nessuno ha pensato che avesse bisogno di un ordine di protezione. Eppure il rischio di femminicidio era palese: violenze, botte, ingiurie. «Estrema litigiosità», riassumono nella caserma di Budrio, dove ricordano di avere trovato molte volte la casa dei Qablaoui a soqquadro, oggetti scaraventati a terra, segni di una vita matrimoniale finita. Ora l’assassinio di Assafa viene motivato con la formula «futili motivi».
Era quindi un femminicidio evitabile se ci fosse stato un intervento più radicale. Perché si piange dopo la morte e non si interviene mai prima?
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