Minacce terroristiche e “progressivo deterioramento della sicurezza”. Con queste motivazioni la Farnesina sconsiglia viaggi che abbiano per meta il Sinai, compreso Sharm, Taba e Dabah. Inoltre, vengono sconsigliati anche viaggi che non siano indispensabili in luoghi diversi “da aree turistiche in alto Egitto,costa continentale del Mar Rosso e Mediterranea”. Scrive l’Huffington Post:
Anche Berlino, a quanto si apprende, sconsiglia i viaggi nel nord della penisola del Sinai e nell’area al confine fra Egitto e Israele e sollecita il rientro per i turisti sul posto. L’annuncio è segnalato sul sito del ministero degli Esteri tedesco. Da ieri la compagnia turistica Tui ha messo a disposizione un charter speciale per rimpatriare i turisti a Sharm el Sheikh. I viaggi verso la regione sono stati bloccati.
La Farnesina ricorda che si continua a registrare in Egitto un clima di instabilità e turbolenza che spesso sfocia in gravi turbative per la sicurezza. Questa perdurante e difficile fase di transizione conferma la possibilità di azioni ostili di stampo terroristico in tutto il Paese, eventualità di cui ogni connazionale che si rechi in Egitto, anche nelle aree turistiche, deve essere pienamente consapevole, anche alla luce dell’attentato a Taba del 16 febbraio scorso, che ha coinvolto turisti stranieri e delle minacce diffuse di recente da gruppi jihadisti.
Due governi italiani non sono mai stati in grado di chiedere all’Europa di bloccare l’accordo di libero scambio Ue-India per il caso dei due marò. Ora c’ha pensato il vice presidente della Commissione europea, Antonio Tajani, dopo che l’unica vera iniziativa presa dai politici italiani è stata, nel marzo dell’anno scorso, annunciare che Latorre e Girone sarebbero rimasti in Italia, dov’erano tornati in occasione della Pasqua, salvo poi tornare a Delhi. Del forte segnale che arriva dall’Europa è Il Giornale in un pezzo a firma Fausto Biloslavo:
Dopo l’ultimo pasticcio sulla pena di morte sì o no, le «contromisure» annunciate dall’inviato speciale di Palazzo Chigi, Staffan De Mistura, riguardano come sempre ingarbugliati passi giudiziari, come il ricorso alla Corte suprema.
Per la prima volta Tajani, ma da Bruxelles, lancia una reazione forte: «L’Ue può firmare un accordo di libero scambio con un Paese che non rispetta i diritti umani?». Il vicepresidente e commissario all’Industria ha le idee chiare: «Non penso che si possa portare avanti un negoziato tra Ue e India su un accordo di libero scambio quando l’ipotesi di una condanna a morte viene presa in considerazione contro cittadini europei che combattono la pirateria marittima».
Massimiliano Latorre e Salvatore Girone non finiranno sul patibolo, ma solo discutere da parte indiana l’applicazione di una legge che prevede la pena capitale è un oltraggio per l’Italia, che si aggiunge a due anni di odissea giudiziaria.
Tajani ha annunciato che nei prossimi giorni invierà due lettere, una al presidente della Commissione europea Josè Manuel Barroso e l’altra all’Alto rappresentante Ue per la politica estera e la sicurezza, Catherine Ashton chiedendo l’intervento di Bruxelles. Il problema è che proprio la baronessa Ashton, sempre poco attiva per i marò, aveva caldeggiato l’accordo quando ricopriva il ruolo di commissario Ue per il commercio estero.
I negoziati fra Delhi e l’Europa sono iniziati nel 2007, ma vanno avanti a rilento. L’accordo ha un’importanza strategica: l’interscambio Ue-India è quasi triplicato dal 2003 al 2011 raggiungendo circa 80 miliardi di dollari. L’Italia aveva a disposizione un’arma di pressione formidabile, ma nei due anni del caso marò non ha mai pensato di usarla.
In questo momento le elezioni di primavera in India e per il Parlamento europeo hanno di fatto congelato la trattativa. Il momento buono per bloccare tutto sbattendo una volta tanto i pugni sul tavolo del caso marò.
L’Europa, fino ad oggi, ha avuto tutt’altre intenzioni. Non a caso il 29 ottobre è giunta a Delhi una delegazione di alto livello di sei europarlamentari, per incontrare il ministro indiano del Commercio proprio per cercare di sbloccare il negoziato. Della delegazione faceva parte Niccolò Rinaldi, eletto a Strasburgo con l’Italia dei Valori, che ha sempre sostenuto di essersi mobilitato per i marò «anche come relatore del Parlamento europeo per l’accordo di libero scambio con l’India».
In Italia fioccano le reazioni politiche. Domani alle 17, alla Galleria «Alberto Sordi» di Roma, Fratelli d’Italia ha indetto una mobilitazione pro marò. E Stefania Prestigiacomo di Forza Italia ha lanciato l’idea di una «manifestazione nazionale». Curioso l’annuncio della missione a Delhi del parlamentare Domenico Rossi, in nome del Gruppo per l’Italia, che è stato generale e vicecapo di Stato maggiore. «È un dovere per avere indossato per 44 anni la divisa – sottolinea Rossi – con la certezza che non si lascia indietro nessuno che appartenga alla famiglia militare. È un dovere per testimoniare all’India che i nostri marò non saranno mai lasciati soli». Peccato che l’ «eroico» Rossi, prima di aderire alla scissione dello scorso dicembre, sia stato eletto con Scelta civica di Monti, che ha sacrificato i due fucilieri di Marina rispedendoli a Delhi per paura degli indiani.
Appena ieri il ministro degli Esteri indiano diceva che il caso dei due marò prigionieri in India non è punibile con la pena di morte, oggi la stessa stampa indiana smentisce tali affermazioni. Secondo il quotidiano Hindustan Times, infatti, La National Investigation Agency (Nia), divisione della polizia indiana, starebbe per ricevere il via libera da parte del ministero dell’Interno per presentare un rapporto sulla vicenda che coinvolge i marò, utilizzando una legge indiana per la repressione della pirateria che prevede la pena di morte. Il giornale parla di un incontro avvenuto ieri fra i ministri degli Esteri e della Giustizia, Salman Khurshid e Kabil Sibal, con quello degli Interni, Sushil Kumar Shinde, e cita un alto funzionario governativo che, in forma anonima, ha riferito che “un accordo è stato raggiunto per autorizzare la Nia a presentare il rapporto accusatorio in base alla sezione 3 della Legge per la repressione degli atti illeciti contro la sicurezza della Navigazione marittima e le strutture fisse sulla piattaforma continentale (SUA Act)”. Tale sezione, che la Nia è pronta ad utilizzare, prevede che chi “causa la morte di una qualsiasi persona sarà punito con la morte”. La situazione è entrata in fase di stallo tempo fa, si dice ancora, per l’esistenza di una assicurazione da parte del governo fornita dal ministero degli Esteri indiano all’Italia che il caso dei marò non rientrava fra quelli “rarissimi” a cui è applicabile la pena di morte. Ma il giornale dice di avere appreso che l’autorizzazione alla Nia per incriminare i due fucilieri di Marina “ora può arrivare ad ogni momento”. Il quotidiano scrive infine che dalle sue indagini la Nia ha rilevato che i marò non lanciarono avvertimenti, non utilizzarono altoparlanti, nè spararono in aria prima di colpire i due pescatori a bordo del St.Antony in avvicinamento. Il ministro della Difesa italiano, Mario Mauro, ha detto: “E’ evidente che la campagna elettorale in India si sta avvicinando in modo prepotente. Il governo italiano mostrerà sui Marò la necessaria inflessibilità”.
Salvatore Girone e Massimiliano Latorre sono bloccati in India dal febbraio 2012 e ora il ministro degli Esteri indiano, Salman Khurshid, ha affermato che l’India ha dato assicurazione all’Italia che la loro vicenda “non rientra nei casi in cui si può applicare la pena di morte”. tali dichiarazioni sarebbero state rilasciate al termine di un incontro tra Khurshid e i ministri degli Interni e della Giustizia indiani, stando a quanto riferisce la Tv Cnn-Ibn. “L’ultima parola spetta però al ministero degli Interni”, ha commentato Khurshid. Nel frattempo si attende il 30 gennaio, data in cui è stata rinviata l’udienza prevista al Patiala House di Nuova Dehli. La polizia indiana non ha infatti ancora depositato il rapporto frutto delle indagini svolte da aprile, né i capi d’accusa. “Non è stato un rinvio subito, ma voluto dai nostri legali per le troppe zone grigie e ambiguità da parte indiana”, ha subito chiarito l’inviato del governo italiano Staffan De Mistura, giunto in India per seguire gli sviluppi del processo.
La vedova di uno dei pescatori indiani uccisi chiede la liberazione dei due marò e lo fa in un’intervista al quotidiano The Indian Express, dove afferma: “I militari italiani devono essere liberati perché non voglio che la maledizione ricada sui miei figli”. Si legge sul sito de il Giornale:
«Ho perdonato i due marines italiani perché credo in Dio. Qualsiasi crimine abbiano compiuto sarà il Signore a giudicarli», sussurra con il viso spento, Dora Valentine. La vedova di Jelestine, uno dei due pescatori indiani uccisi in alto mare, ci accoglie nella sua povera casa, ma robusta ed in muratura, a Kollam. Lei è convinta che a compiere «quest’atto folle» siano stati Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, i due marò in carcere in India. Loro sostengono di aver sparato, solo in acqua, dalla petroliera Enrica Lexie, per respingere un attacco dei pirati.
La prima stanza, dopo l’ingresso, è avvolta dalla penombra. Su una parete c’è una specie di altarino con la foto del baffuto marito, che per mantenere la famiglia faceva il pescatore. Vita dura: almeno tre settimane al mese nell’oceano con un salario proporzionale al pescato, che raramente superava le 10mila rupie (150 euro).
Di fronte a noi, oltre all’immagine di Gesù, svetta una statuetta della Madonna e la Bibbia. Il figlio diciottenne, Derrik, con ancora l’apparecchio per i denti, spilungone e dallo sguardo un po’ perso, oggi sosterrà l’esame per entrare nel college. «Papà voleva che mi imbarcassi come ufficiale di macchine. Farò l’ingegnere, ma mai per mare dopo quello che è successo – spiega il primogenito – Durante l’esame penserò a lui che mi aiuti a superarlo da lassù».
Sua madre avvolta in un tradizionale sari scuro e con i capelli raccolti sottolinea che «i soldi del governo italiano serviranno a coronare il comune obiettivo prefissato con Jelestine. I nostri figli devono studiare e trovare un lavoro che li permetta una vita migliore». La Difesa ha trovato un accordo con gli avvocati delle famiglie dei pescatori uccisi per un atto di umanità, che in termini pratici equivale a 10 milioni di rupie (146mila euro).
Il piccolo Jelen, 10 anni, con la sua vocina e gli occhioni vispi interviene dicendo che lui «vuol diventare pilota di aerei militari per servire l’India».
In questa casa umile, a due passi dall’oceano, non si respira animosità nei confronti dei marò o dell’Italia, ma solo tristezza. Michele Girone, il padre di Salvatore, uno dei fucilieri di marina in carcere ha chiesto di portare ai Valentine i saluti più sentiti. Assieme ad altri quattro congiunti ha concluso ieri, con gli occhi lucidi per il distacco, tre giorni di colloqui con i marò in cella.
«Se i familiari dei marines volessero venire a trovarci questa casa è sempre aperta e saranno i benvenuti» risponde la vedova.
I soldi della «compensazione» non sono ancora arrivati, ma la famiglia ha le idee chiare su come utilizzarli. «Dopo il college vorrei studiare all’estero – spiega Derrick – Anche in Italia se fosse possibile. Non ho nulla contro il vostro Paese, nonostante la morte di mio padre». La madre aggiunge che sarebbe «grata all’Italia per questa possibilità». Suo marito Jelestine aveva 48 anni. Si sono sposati nel tempio di Fatima, a Kollam, nel 1993. «Il più bel giorno della mia vita, perché ne iniziavo una nuova fondando una famiglia» spiega la vedova. Il figlio piccolo si apre in un sorriso quando parla del «papà che dopo essere stato in mare ci portava l’uva, sempre buonissima». Gente semplice e di fede, la famiglia Valentine, che ha visto il Santo Padre solo in tv. «Un sogno nel cassetto sarebbe andare a Roma a vederlo dal vero» ammette Dora.
Ad incontro quasi finito ci piombano addosso dieci poliziotti con toni inquisitori. Quando capiscono la situazione tornano subito gentili e chiedono solo la fotocopia del mio visto.
Lungo il cammino del perdono e verso una soluzione che accontenti tutti, la famiglia del pescatore ucciso è stata accompagnata da padre Martin Rajesh. «Non abbiamo chiesto un riscatto, ma solo dei soldi per sostenere la vedova ed i figli. Vogliamo che vadano direttamente a loro, che si ritireranno dalla causa» spiega il sacerdote di Kollam. «Come cristiani pensiamo anche alle famiglie di Salvatore e Massimiliano – ribadisce il prete indiano – Spero che una volta chiusa la compensazione economica, i marines possano tornare in patria. Stiamo parlando di soldati italiani che portano la divisa ed erano in servizio. Per questo è corretto giudicarli a casa vostra». Padre Martin li ha incontrati in carcere: «Non ho chiesto cosa sia accaduto e loro non me l’hanno spiegato, ma si sono detti addolorati per la morte dei pescatori invitandomi a porgere le condoglianze alle famiglie delle vittime».
E’ Natale, le persone si aspettano di trascorrere la giornata con i loro cari, in un luogo che possono chiamare casa. Non tutti, però, ci riescono. Come i due marò, che quest’anno non hanno ricevuto il permesso dalle autorità indiane per trascorrere le feste in Italia. E così Massimiliano Latorre, ieri, ha pubblicato un lungo post in Facebook dove si dice “dispiaciuto” di non poter trascorrere il Natale in Italia: “Purtroppo quest’anno non potrò essere nella mia amata patria per respirare il profumo che solo da noi si respira in questi giorni”, ha scritto il fuciliere tarantino. “Fortunatamente – precisa il marò – parte dei miei affetti più cari mi ha raggiunto portando una ventata di gioia, ma sempre con il cuore rivolto agli altri carissimi affetti che sfortunatamente non hanno potuto raggiungermi. Volevo augurare a Voi tanta serenità, sentimento che ho imparato essere il più importante nella vita di una famiglia, e ringraziarvi per quanto cuore, affetto e passione ponete ogni giorno nell’essere vicino a me ed ai miei cari: questo – sottolinea – per me è il regalo più grande che potessi sognare di ricevere”. E ancora, rivolgendosi a chi l’ha sostenuto da quel febbraio 2012, quando venne arrestato assieme a Salvatore Girone: “Auguri soprattutto ai vostri bambini che sono l’anima di questa festa con i loro volti sorridenti e gioiosi illuminati da alberi e presepi, sempre presenti nelle nostre case rendono la vita degna di essere vissuta”. “Vi abbraccio idealmente – conclude Latorre – e con questo abbraccio vi trasmetto tutta la mia immensa riconoscenza”.
Massimiliano Latorre e Salvatore Girone sono ancora in India e il Capo dello Stato confida nella “riapertura delle prospettive” che il Paese asiatico aveva indicato, agurandosi inoltre un prossimo incontro al Quirinale. Nel frattempo, si rallegra Mauro, ministro della Difesa, perchè i familiari dei due marò a Natale potranno volare in India per rivederli. E ricorda: “siamo in fervida attesa e alacre attività, soprattutto sul piano diplomatico”. Ma nel frattempo si parla dei due miliatari anche per quello che accade in Italia: si è infatti scelto un Presepe per ricordare che Latorre e Girone attendono giustizia ormai da quasi due anni. E la Cigl è insorta. Come riporta il Giornale:
È successo che nella sede della direzione regionale Inps a Firenze «è comparso un presepe sormontato dalla foto dei due militari trattenuti in India e da uno slogan in cui si auspica la loro immediata liberazione». Il sindacato ha reagito con un comunicato, secondo cui «che in un ufficio pubblico si possa allestire qualsiasi cosa abbia a che fare con un credo religioso è già materia dibattuta, ma abbinare a questo un proclama politico è evidentemente un’offesa». Prevenendo il sospetto di un pregiudizio ostile verso i due marò, la Cgil precisa che «non si tratta di schierarsi contro o a favore del rientro in Italia dei due marò, ma cosa ha a che fare questo con il rispetto di una tradizione religiosa? Predisporre un simile allestimento, discutibile anche dal punto di vista estetico, è quantomeno improprio per un ufficio pubblico».
Eccezioni sarebbero peraltro parse tollerabili alla Cgil: «Se le immagini fossero state riferite alle vittime della guerra civile in Siria o alle condizioni del Cie di Lampedusa, non troveremmo niente da dire. La pace, il ripudio della violenza e la tutela della dignità umana sono valori inseriti nella nostra Costituzione. Il rinnovare (dopo un anno) l’appello alla liberazione di due connazionali coinvolti in una vicenda controversa e ancora tutta da chiarire è palesemente un segnale politico, che viene pure imposto dalla dirigenza Inps». Il dirigente regionale dell’Inps, Fabio Vitale, si è detto «basito» e ha definito «ideologica» la nota della Cgil.
Tensione oggi per la notizia secondo la quale la polizia indiana vorrebbe infliggere la pena di morte ai due marò, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, accusati dell’omicidio di due pescatori il 15 febbraio 2012 nonostante il fatto che siano stati trovati sul corpo dei pescatori uccisi proiettili incompatibili, secondo le perizie balistiche, con le armi in dotazione a Latorre e Girone. Nel frattempo, il governo indiano ha escluso completamente questa eventualità, ribadendo la propria posizione. “Il caso non rientra tra quelli che sono punibili con la pena di morte”, ha detto il portavoce del governo Syed Akbaruddin che ha ricordato anche come, in una dichiarazione al Parlamento lo scorso 22 marzo, il ministro degli Esteri Salman Khushid avesse escluso la pena capitale, aggiungendo che si applicava solo nei “casi rari tra i più rari”. Non sono quindi state confermate le indiscrezioni del giornale The Hindustan Times sulla consegna di un rapporto della Nia al ministero degli Interni in cui si chiede l’applicazione di una severa legge che prevede la pena capitale. La conferma del fatto che i marò non corrono simile rischio arriva dal ministro degli Esteri Emma Bonino, che spiega che simile notizia “è già stata smentita”. “Non intendo aggiungere altro”. All’apprendere la notizia, poi smentita, dell’intenzione degli investigatori di perseguire i due militari in base al ‘Sua Act’ che reprime la pirateria marittima con la pena di morte, l’inviato del governo italiano Staffan de Mistura ha replicato: “Siamo pronti ad ogni evenienza con mosse e contromosse”. Il ministero degli Interni si sarebbe trovato “in imbarazzo” sulla decisione della Nia sui marò, spiega The Economic Times. “Di fronte a questa particolare situazione – scrive il giornale – il ministro degli Interni ha intenzione di trasferire il caso all’Attorney General per un parere legale”. Sarà lui, come riferisce il portavoce del ministero degli Esteri indiano, “a dare il parere decisivo sulla definizione dei capi di accusa”.
E’ il The Hindustan Times a rendere nota una notizia shock: gli investigatori della Nia che si occupano del caso dei due marò, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, hanno presentato un rapporto in cui accusa i due militari italiani in base a una legge che prevede la pena di morte. Tale rapporto, consegnato al ministero degli Interni, chiede infatti che vengano perseguiti in base al “Sua Act”, che reprime la pirateria marittima con la pena capitale. E questo, “nonostante le ripetute richieste pressanti del ministero degli Esteri di trattare il caso con capi di imputazione che prevedono pene più lievi”. Alla Nia è stata quindi chiesta una conferma dell’esistenza di un tale rapporto in cui si chiede la pena di morte per Latorre e Girone, ma la risposta della polizia investigativa indiana è stata un “no comment”. Il vice ispettore P.V. Vikraman, consultato telefonicamente sulle notizie pubblicate dal quotidiano, ha detto soltanto: “Non posso commentare. Non sono in una posizione per poterlo fare”.
«Ci sono sospetti – afferma Emma Bonino – che dalla Libia fra i vari disperati ci siano anche provenienze di jihadisti o qaidisti su una via europea, che tra l’altro è uno dei metodi che hanno usato spesso. Terrorismo? Non so dire. È una minaccia alla sicurezza». Minaccia. Così è stato lanciato l’allarme dalla Farnesina. Quindi non solo un esercito di disperati, ma vere e proprie infiltrazioni su una via europea, che possono dislocarsi in varie parti d’Europa per poi colpire obiettivi sensibili. Cellule terroristiche, ma anche droga e armi.
Sono stati sottoposti ad interrogatorio con la polizia indiana quattro fucilieri Renato Voglino, Massimo Andronico, Antonio Fontana e Alessandro Conte, che il 14 febbraio 2012 si trovavano sulla petroliera “Enrica Lexie” assieme ai due marò sotto processo in India con l’accusa di aver sparato e ucciso due pescatori del Kerala. Al termine della videoconferenza, avvenuta nell’ambasciata di New Delhi a Roma, l’invitoa del governo italiano Staffan De Mistura ha detto all’Ansa: “Adesso la posizione di Latorre e Girone è stata ancor più chiarita”. Al termine delle deposizioni, i quattro si sono trattenuti con De Mistura e Carlo Sica, l’avvocato dello Stato che segue i legali indiani di Latorre e Girone. De Mistura ha spiegato che si è tratto di “una escussione dei quattro fucilieri di Marina che noi volevamo che avvenisse perché sono testimoni della difesa e perché questo è l’ultimo tassello prima di chiudere le indagini suppletive. Indagini che volevamo che avvenissero affinché fossimo nelle condizioni di difendere al massimo i due fucilieri di Marina Latorre e Girone. Noi ci sentiamo sicuri di saper come andare avanti, perché la loro posizione è chiara ed è stata ancor più chiarita oggi”. La Nia, National Investigation Agency indiana, ha voluto ascoltare i fucilieri in seguito alle perizie balistiche che hanno rivelato che i proiettili ritrovati nei corpi dei due pescatori sono compatibili con le armi di altri due sottufficiali, non con i fucili Beretta in dotazione a Girone e Latorre. E’ stato il giudice speciale individuato dalla Corte suprema indiana a incaricare l’agenzia di ricostruire la vicenda, dopo che la stessa Corte suprema aveva ritenuto non valido il procedimento giudiziario avviato a suo tempo dalla polizia e dai giudici del Kerala. I fuciliari interrogati si sono detti “assolutamente sereni e determinati” quando hanno riferito la loro versione dei fatti. Una fonte informata ha detto All’Asca che le indagini suppletive dovrebbero chiudersi “in tempi ragionevoli”, essendo quello di stamani “uno degli ultimi passaggi” prima che gli inquirenti indiani presentino i capi di accusa nei confronti di Latorre e Girone. Avrà poi inizio il processo, per il quale “da entrambe le parti c’è la volontà di una chiusura rapida”.
Giornata della festa delle Forze Armate oggi e il pensiero è corso ai due marò, in India ormai da 624 giorni. Nessuna novità per loro, solo Napolitano che ha voluto assicurare che “non cessiamo di operare tenacemente per riportarli a casa”. In videoconferenza, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone hanno voluto ricordare che ci saranno ancora da affrontare “periodi duri”. Consapevoli, non potendo fare altro, di “quanta strada il governo deve fare per raggiungere il traguardo” di farli “tornare a casa”. Da parte sua, la titolare della Farnesina ritiene che “alcune cose si stiano muovendo”, pur ribadendo che il “dossier ereditato” ha “grandi complessità” e “grandi contraddizioni”. Emma Bonino ha invece sottolineato che il governo “finalmente parla con una voce” mentre il ministro della Difesa Mauro ha rilevato la “forza e determinazione” del lavoro perchè i marò tornino “a casa con onore” e mette l’accento sui “sacrifici dei loro familiari”. Staffan de Mistura, inviato speciale del governo, ha ricordato invece che non si deve dimenticare che il lavoro “è costante, determinato e pressante anche quando avviene con discrezione e senza rumore”. Al contrario, Ignazio La Russa ha chiamato in causa l'”assenza di un vero impegno di tutto il sistema Italia” e una questione della “dignità nazionale”. Ad essere insofferenti sono invece tutti coloro che vogliono un pronto ritorno dei marò e che si sono dati appuntamento per una ‘Tweet storm’, una tempesta di tweet per chiedere il rientro di Latore e Girone che “l’Italia ha dimenticato ma noi non lo faremo”. Ed è di oggi la notizia che Latorre ha un’infezione intestinale, forse contratta nel carcere di Kochi, e per la quale potrebbe essere necessario un intervento chirurgico, magari in Italia. Forse la possiblità più concreta di tornare rapidamente, almeno per lui, passa da qui.
Le autorità indiane avrebbero deciso: la Nia, National investigation agency, sarebbe pronta per la missione che porterà un loro team in Italia, a Roma, con lo scopo d’interrogare gli altri quattro fucilieri imbarcati sulla Enrica Lexie il l 15 febbraio 2012, giorno in cui vennero uccisi due pescatori al largo delle coste di Kerala. A darne notizia è l’agenzia di stampa indiana Pti, ma non ci sono conferme ufficiali. Gli uomini della Nia assisterebbero a un interrogatorio svolto dalla polizia italiana in base a lettere rogatorie indiane. Tale missione potrebbe risolverebbe l’impasse che impedisce la chiusura delle indagini favorendo l’apertura del processo dei due marò, Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, in India.
Sembra non arrivare mai l’apertura del processo ai due fucilieri di marina Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, i marò, imputati per omicidio per aver sparato dalla nave italiana Enrica Lexie uccidendo due pescatori al largo delle coste del Kerala il 15 febbraio 2012. Considerato che la giustizia indiana aveva chiesto di ascolatare gli altri militari presenti sulla petrolifera, uomini che il ministero degli Esteri non è intenzionato a mandare in India, sarebbero ora le autorità indiane in procinto di decidere se inviare a Roma una missione della National investigation agency (Nia) per interrogare i quattro marò. In questo modo si risolverebbe l’impasse che impedisce la chiusura delle indagini.
L’America ha sempre difeso i suoi militari anche di fronte ai crimini più efferati. I militari sono sempre stati per gli Stati Uniti degli eroi, e forse se in alcuni casi il comportamento degli americani è andato oltre anche al buon gusto, c’è comunque da riconoscere il ragionamento alla base della difesa ad oltranza: i militari sono lo scudo del paese se permettiamo agli altri di intaccare questo scudo, si apriranno falle e ognuno potrà usare i militari come strumento per attaccare il nostro Paese. In definitiva se i militari non si sentono tutelati perché dovrebbero rischiare la vita per il loro popolo?
“Non è accertata la colpevolezza, e non è accertata l’innocenza. I processi servono a questo”. Con questa frase lapidaria lo staff di Emma Bonino dà l’ultimo colpo di mannaia addosso ai marò. Il post è stato scritto sulla pagina Facebook aperta per “ospitare pareri e commenti sulla vicenda che ha coinvolto i due marò italiani Girone e Latorre”. Anche l’ex ministro Giulio Terzi di Sant’Agata. Su Twitter Terzi scrive (ricevendo anche molti pareri in sintonia con il suo pensiero):
#Maro':credo loro innocenza perche'l'hanno affermata sin da inizio. Perche'ns Istituzioni pongono ora dubbi legittimando processo in #INDIA?
Come scrive oggi Repubblica, il commento di ieri della Farnesina ha in qualche modo “rotto il fronte dell’innocentismo a tutti i costi che il governo italiano ha seguito fino ad oggi”.
Una linea solo apparente, perché nei fatti i tre ministeri maggiormente coinvolti (presidenza del Consiglio, ministero degli Esteri e della Difesa) riservatamente conoscono le prove contro i due marò e ammettono che una condanna da parte dei giudici indiani è possibile. Il vero problema, ormai, sono i continui rinvii del dibattimento processuale.
Terzi, ex titolare della Farnesina, una condanna non è lontanamente immaginabile perché il processo è illegittimo. “Certo che ci vuole un processo – twitta – ma è legittimo solo se lo Stato ha giurisdizione. E l’India non ce l’ha, il fatto è avvenuto in acque internazionali”. “Ovvio che occorre il processo – prosegue – ma in Italia
“E’ un dovere morale dirlo. Non è il governo di Bashar al-Assad ad avere utilizzato il gas sarin o un altro gas nella periferia di Damasco”. Queste le parole del compagno di prigionia di Domenico Quirico in un’intervista alla radio RTL-TVi, riferendo di una conversazione, ascoltata a sorpresa, tra i ribelli. Piccinin ha aggiunto che ammetterlo “mi costa perché da maggio 2012 sostengo con decisione l’esercito libero siriano nella sua giusta lotta per la democrazia. Per il momento, però, per una questione di etica Domenico ed io siamo determinati a non fare uscire i dettagli di questa informazione. Quando la ‘Stampa’ riterrà che è venuto il momento di dare dettagli su questa informazione, lo farò anch’io in Belgio”, ha spiegato l’insegnante belga.
Piccinin ha raccontato quindi che, quando il 30 agosto, lui e il giornalista italiano hanno appreso dell’intenzione degli Usa di agire in seguito all’uso, attribuito al regime, delle armi chimiche “avevamo la testa in fiamme: eravamo prigionieri laggiù, bloccati con questa informazione e per noi era impossibile darla”.
«Giochi crudeli» li chiama Pierre Piccinin, suo compagno di prigionia, liberato insieme al giornalista italiano Quirico e afferma che «Domenico ha subito due finte esecuzioni con una pistola» -, racconta al telefono Pierre Piccinin, di prima mattina. L’«odissea tremenda» siriana del professore belga e dell’inviato de la Stampa è fatta anche di due tentativi di evasione. «Una volta abbiamo cercato di profittare del momento della preghiera – rivela -. Ci siamo impossessati di due kalashnikov e siamo fuggiti nella campagna per due giorni. Poi ci hanno ripreso e siano stati puniti molto severamente». Non era la prima volta. Tutta la storia dei cinque mesi di prigionia è stata segnata da «violenze fisiche molto dure».
Pierre Piccinin è rientrato a Bruxelles alle 5 e 40 del mattino e ad accoglierlo ha trovato il premier Elio Di Rupo, che ha avuto parole di grande elogio per il lavoro delle autorità italiane e la Farnesina.
«Ci siamo incontrati a un convegno a Torino, con Domenico», racconta Pierre: «E’ un giornalista straordinario, un grande conoscitore delle primavere arabe e degli intrecci mediorientali. Insieme abbiamo fatto otto viaggi in Siria, nel corso dei quali abbiamo visto cambiare la rivoluzione. All’inizio era un movimento democratico. Poi lo spirito positivo è evaporato, e tutto si è ridotto al tentativo di trarre il meglio per sé da queste drammatiche circostanze».
Piccinin ammette anche la trasformazione che si è avuta è andata in una direzione di estremismo islamico che non ha più nulla della Primavera araba a cui si era assistito anni fa: «In assenza del sostegno dell’occidente – confessa – i movimenti rivoluzionari sono stati gradualmente sostituti da cellule fondamentaliste islamiche, nelle quali sono confluiti anche gruppi marginali, delle bande di criminali. Tutto è degenerato, gli ideali sono caduti. Non volevano fare la rivoluzione, ma razziare le popolazione e trarne vantaggio».
Ai primi di aprile li hanno fermati le truppe dell’esercito ribelle, rivela il professore belga. Li hanno tenuti prigionieri «nella totale segretezza» per due mesi. Non hanno loro permesso di comunicare con le famiglie “che ci credevano morti”. «Quando l’assedio è diventato troppo duro, hanno tentato una sortita e son riusciti ad attraversare le linee governative, ci hanno portato con loro. Gli ultimi giorni sono stati terribili, eravamo chiusi in una cantina piena di scarafaggi». Era la notte fra il 4 e il 5 giugno. «E’ cominciata una lunga e terribile odissea attraverso il paese, con marce forzate di giorno e di notte. A qual punto siamo passati nelle mani di un gruppo che lavora per Al Faruk, eravamo nel nord del governatorato di Damasco. Da allora ci hanno trasferito continuamente per tutto il paese. Alla fine eravamo in una località vicino alla frontiera turca, a Bal al-Awa, senza esserne consapevoli. Quindi siamo riandati verso Est».
«All’inizio, per ingannare il tempo e vincere la tensione, abbiamo inventato un piccolo gioco. Pensavamo a dei personaggi storici, immaginavamo cosa avrebbero detto e fatto in quelle stesse circostanze in cui ci trovavamo. Poi le cose sono peggiorate, man mano che ci spostavano in lungo e in largo per la Siria crescevano i momenti di incertezza e scoramento. Ci dicevamo: “resisti, farlo per la famiglia, per chi ci vuole bene, ci aspettano”. E alla fine ci siamo riusciti».
Come si comportavano, con voi? «In certi casi sono stati corretti. Poi le cose sono peggiorate. Ci trattavano come occidentali, cristiani, con grande disprezzo. Certi giorni non ci hanno dato nemmeno da mangiare». Così la liberazione è stata a lungo una chimera. «Sino all’ultimo non siamo stati sicuri, ci dicevano “fra due giorni sarete liberi”, “fra una settimana sarete liberi”, ma non succedeva. Era un gioco crudele». Finito solo ieri, dopo cinque mesi esatti.
E ora? «Fisicamente sto bene, nonostante le torture. psicologicamente anche, eravamo due, ci siamo sostenuti a vicenda. Adesso tornerò a insegnare e a occuparmi di Medio Oriente – risponde Piccinin -, prima però voglio stare vicino ai miei genitori. Sono anziani e hanno molto sofferto. Il mio posto è con loro, adesso. Poi la vita tornerà al suo corso naturale. Per della gente come noi, in realtà, non credo ci sia alternativa».
Sarebbe libero il giornalista Domenica Quirico rapito in Siria il 9 Aprile scorso. Il 6 giugno fu diffusa la notizia che il reporter era ancora vivo. Il ministro degli Esteri, Emma Bonino, ha avuto un colloquio telefonico con il direttore del quotidiano torinese, Mario Calabresi. Quirico è ora in volo verso l’Italia. Domenico Quirico, 62 anni, è da molto tempo in prima linea nei paesi del Nord Africa e della Primavera araba, di cui è un grosso conoscitore e a cui nel 2011 ha dedicato un libro dal titolo “Primavera araba”.
“Abbiamo avuto la magnifica notizia da Emma Bonino ed Enrico Letta. Sappiamo che hanno già contattato la famiglia. E’ una notizia magnifica”. Così il direttore de La Stampa, Mario Calabresi, ha commentato la notizia della liberazione del giornalista Domenico Quirico.
La notizia si è appresa tramite un tweet inviato dal Direttore de La Stampa che ne annunciava la liberazione.
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Sono seguite poi le dichiarazioni di rito. Il premier Letta ha sottolineato come “La speranza non era mai venuta meno e vengono, ora coronati dal successo tutti gli sforzi”.
Anche Giorgio Napolitano ha espresso “vivissimo apprezzamento per l’impegno dispiegato dal ministro Emma Bonino, dal ministero degli Esteri e dai Servizi per il successo”.
Egitto, da questa mattina si sono persi i contatti con la giornalista Mediaset Gabriella Simoni. L’inviata stava seguendo i drammatici avvenimenti di queste ore nel paese mediorientale. La Farnesina si è attivata e sta seguendo il caso.
Aggiornamento 17 agosto 2013, 16,44: Sembrerebbe che siano stati ristabiliti i contatti con la giornalista Gabriella Simoni della quale non si avevano più notizie da questa mattina. Della notizia ancora non si ha conferma ufficiale.
Sono ancora i Fratelli musulmani a denunciare il massacro, che secondo loro, sta compiendo la polizia egiziana, che questa mattina avrebbe massacrato almeno 200 persone (e ferendone 8000) sparando sulla folla dei manifestanti Pro-Morsi. Dall’altra parte il ministero dell’Interno ha annunciato che due membri delle forze di sicurezza sono stati uccisi durante lo sgombero delle piazze pro-Morsi, aggiungendo che sono stati i manifestanti ad aprire il fuoco contro la polizia. Per il ministero della Salute egiziano, poi, per il momento non si conterebbe alcuna vittima, ma solo 26 feriti, nello schieramento pro-Morsi durante il rastrellamento da parte della polizia. Il clima è infuocato e minuto dopo minuto la situazione al Cairo è in evoluzione.
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La notizia dei morti durante lo sgombero dei presidi pro-Morsi da parte della polizia in Egitto è «estremamente preoccupante» per la Ue. «Ribadiamo che la violenza non condurrà ad alcuna soluzione e facciamo appello alle autorità egiziane a procedere col massimo autocontrollo» ha detto il portavoce di Catherine Ashton.
L’Ambasciata d’Italia a Il Cairo invita i connazionali in Egitto a “tenersi lontani dagli assembramenti”. “Siamo sempre raggiungibili allo 0227943194/5”, si legge su Twitter.
La Farnesina ancora non ha confermato il presunto omicidio di Padre Paolo Dall’Oglio, sparito in Siria a fine luglio, ma Lama Atassi, segretario generale del Fronte Nazionale Siriano, in un’intervista a Tgcom24 ha dichiarato che “Dietro l’omicidio di Padre Dall’Oglio c’è Assad, lui ha infiltrato i gruppi estremisti in Siria per delegittimare la rivoluzione”. Era stato lo stesso Atassi a dare la notizia della presunta morte del gesuita lo scorso lunedì: “Informiamo, con profondo dolore, che abbiamo ricevuto oggi da una fonte affidabile, la notizia che Padre Paolo Dall’Oglio è morto. Che Dio abbia misericordia della sua anima”. Riferendo che “La notizia ci è stata riferita da un alto funzionario, che vuole rimanere anonimo, dell’Esercito siriano libero (Free Syrian Army), siamo più che certi che l’informazione sia fondata”. Secondo Atassi “Gli assassini di Padre Dall’Oglio non hanno ancora voluto consegnare il corpo. Si tratta di un piccolo gruppo di estremisti islamici, legati ad Al Qaeda. Non ho altri particolari sulla sua morte”. Alla domanda “Quali prove avete della sua morte?” spiega quindi che “Prove materiali alla mano non ce ne sono, ma ci fidiamo di questa fonte, data la sua importanza e posizione. La mancanza di qualsiasi contatto di Padre Dall’Oglio di fatto è già una prova. Altrimenti ci sarebbero stati tentativi di contatti da parte dei rapitori”. E circa la ricorstuzione di quello che sarebbe successo al gesuita: “Non so se si potrà mai avere una vera e propria ricostruzione dei fatti. E’ difficile in questo tipo di situazioni. Non posso dare una data precisa della morte, so però che Dall’Oglio è caduto nelle mani di persone che non lo hanno mai trattato come un amico, ma come un vero e proprio nemico. E’ stato processato e condannato da un tribunale islamico, composto da individui che non hanno nessuna nozione di giustizia”. E sul perchè non ci sia stata nessuna rivendicazione ufficiale: “Difficile che lo facciano, ritengo infatti che rivendicare l’uccisione di Padre Dall’Oglio potrebbe mettere a disagio le forze coinvolte. Potrebbe esserci infatti una reazione negativa, dato che era una persona amata in Siria. La gente potrebbe cominciare a mettere in forse l’operato di questi gruppi”. Ma Atassi spiega anche le motivazioni che avrebbero condotto al presunto omicidio: “Una delle ipotesi è che questi estremisti possano essere stati infiltrati dal regime, per creare una sorta di strategia della tensione. Nel corso del conflitto Assad ha favorito prima il passaggio di questi gruppi dalla Siria all’Iraq, dove ci sono campi di addestramento, e poi il rientro in Siria. Assad in particolare utilizzerebbe questi gruppi per dimostrare alla comunità internazionale che quella in corso in Siria non è una rivoluzione, ma azioni terroristiche di gruppi estremisti”. Ci sarebbero anche responsabilità politiche dell’Occidente dietro la morte di Dall’Oglio quindi? “In parte sì. Le grandi potenze hanno scelto l’opposizione a cui fare riferimento. Un’opposizione che non si è dimostrata all’altezza delle aspettative del popolo siriano: non è sufficientemente strutturata, ma in compenso è corrotta tanto quanto il regime di Assad. E’ un’opposizione che si è rivelata non costruttiva, che non ha lavorato per il popolo. In compenso, come i dittatori del Terzo Mondo, viaggia su jet privati, abita in palazzi e ville di lusso e vive nel privilegio. Nel frattempo la popolazione non riceve aiuti umanitari: quello che arriva infatti finisce nelle tasche dei membri corrotti dell’opposizione. Negli ultimi due anni la rivoluzione e i suoi ideali sono stati messi all’asta. Tutto questo ha creato un disorientamento, dovuto a un vuoto ideologico: ed è questa sfiducia creatasi a causa dell’opposizione che ha aperto le porte agli ideali estremisti”.
Paolo Dall’Oglio, il padre gesuita rapito sarebbe già morto, secondo quanto riferisce un sito arabo, ma la Farnesina – interpellata dall’ANSA – dichiara che «si tratta di un’indicazione che va presa con estrema cautela e che non trova al momento alcuna conferma». Lo stesso gesuita appena arrivato aveva lanciato un appello su Facebook facendo comprendere la complessità della missione che si trovava a svolgere: «Pregate per me, perché abbia una buona fortuna in questa missione per la quale sono venuto qui».
Ancora una tragedia ad alta quota, questa volta sul massiccio dello Stubai, nelle Alpi tirolesi. Un’escursionista italiana di 51 anni, è morta mentre si trovava a 2.290 metri d’altezza lasciando, per ragioni sconosciute, la corda di sicurezza in arrampicata, perdendo l’equilibrio e cadendo per oltre 100 metri. A riferirlo, la polizia locale. La donna si trovava con un gruppo di una ventina di persone del Club Alpino Italiano.
Quirico è vivo e questa è la buona notizia che oggi ha ribadito il ministro degli Esteri, Emma Bonino parlando ai microfoni di Radio24.
“Abbiamo informato la famiglia – ha detto la titolare della Farnesina -. Continuano intanto tutte le ricerche con i canali diplomatici ufficiali, i servizi e i contatti con i vari gruppi attivi nel Paese”.
Adama Dieng, Consigliere speciale dell’Onu per la Prevenzione del Genocidio, intervenuto a un convegno alla Farnesina, ha affermato di ritenere che ci sia ancora una possibilità di prevenire uno sterminio di massa in Siria. “E’ il momento di agire, ma se non lo facciamo c’è il serio rischio di vedere, domani, persone che si uccideranno a vicenda sulla base della religione”. Il consigliere Onu ha quindi chiesto che venga incoraggiato il dialogo tra Usa e Russia su Damasco.
Nel frattempo una denuncia arriva dalla Cambogia, dov’è riunito in questi giorni il comitato Unesco: a causa della guerra civile che sta devastando il Paese da due anni, sei siti storici siriani sono in pericolo. A rischiare maggiormente sarebbe la città vecchia di Aleppo, che ha già subito “danni considerevoli”.
Daniele Stefanini, il fotografo free lance livornese picchiato e fermato durante gli incidenti di domenica scorsa a Istanbul, è stato rilasciato. E’ stato lui stesso a telefonare ai familiari per informarli e la Farnesina ha confermato la notizia. Stefanini, fino a due anni fa, era era impiegato alla compagnia di navigazione Moby ma aveva lasciato il lavoro proprio per seguire la sua passione, come aveva spiegato all’ANSA la madre nei giorni scorsi: “Mio figlio? Troppo appassionato di fotografia…”. Stefanini non è stato l’unico fotografo a subire un simile trattamento: anche molti altri reporter sono stati fermati e picchiati durante l’intervento repressivo delle forze dell’ordine turche voluto da Erdogan. La Turchia è il Paese al mondo con il più alto numero di giornalisti in carcere e molti altri sono in attesa di giudizio ben da prima che cominciassero le proteste, che tra l’altro hanno portato sanzioni per quei canali televisivi che hanno trasmesso le immagini delle folle in piazza.
Pugni tesi tra Italia e Afghanistan dopo l’attentato in cui è caduto Giuseppe La Rosa. Secondo il ministro degli Esteri, Emma Bonino, non sarebbe vera la notizia del bambino di appena 11 anni che avrebbe ucciso nel sud dell’Afghanistan. La notizia sarebbe stata diffusa solo per “propaganda talebana” . Inoltre sottolinea la titolare della Farnesina: “Dai contatti del ministro della Difesa Mauro emerge che l’attentato sia stato realizzato da un adulto”.
Erano le 22 a Ciampino quando da un Falcon sono scesi i quattro giornalisti che per 9 giorni sono stati sequestrati nel nord della Siria. E’ finita con un lieto fine la disavventura per l’inviato Rai Amedeo Ricucci, il fotoreporter Elio Colavolpe, il documentarista Andrea Vignali e la giornalista freelance Susan Dabbous,di origini siriane. Poco prima dell’arrivo dell’aereo, lo zio di Susanna Dabbous, Toni Mira, redattore capo di Avvenire, ha raccontato la telefonata avuta nel pomeriggio con la freelance. «Per lei sono stati momenti di forte tensione e preoccupazione però, alla fine, l’ho sentita anche molto allegra. Mi ha riferito di aver pensato molto alla nonna materna Margherita, che è morta alcuni anni fa e ‘che sicuramente mi ha protetta dal cielo’ e poi ho pensato a papa Francesco. Come mai? Perché, ha spiegato, non bisogna mai arrendersi».
Ricucci conferma che sono stati trattati bene. «Siamo stati in mano a un gruppo islamista armato che non fa parte dell’Esercito libero siriano (quindi nulla a che vedere con la rivolta popolare contro il regime del presidente Bashar al Assad). Si è trattato di un malinteso… ci trovavamo in una località originariamente cristiana e stavamo filmando una chiesa. Ma i miliziani hanno creduto che stessimo riprendendo una loro base logistica. All’inizio ci hanno presi per spie e volevano controllare quello che avevamo girato e per far questo ci hanno messo un sacco di tempo. I sequestratori ci hanno tenuti in posti diversi, non proprio prigioni sotto certi aspetti, per altri sì». E a chi afferma che forse lui e i suoi colleghi sono stati «incauti», il cronista di RaiStoria risponde: «Che qualcuno lo possa pensare lo trovo di cattivo gusto. Siamo stati cauti fino all’ennesima potenza».
Più dura è stata per la Dabbous divisa dagli altri tre uomini e minacciata del tagli delle mani: «pensavano che avrei scritto un articolo su di loro. Temevo che mi avrebbero ucciso, ho avuto veramente molta paura», ha detto, aggiungendo che tra i sequestratori c’erano algerini e marocchini.
Rilasciati i 4 giornalisti italiani che erano trattenuti nella Siria dal 4 aprile scorso. E’ Mario Monti, ministro degli Esteri ad interim a comunicarlo con una nota: «Desidero ringraziare l’Unità di Crisi dellaFarnesina e tutte le strutture dello Stato che con impegno e professionalità hanno reso possibile l’esito positivo di questa vicenda, complicata dalla particolare pericolosità del contesto». Come sempre per l’Italia muoversi in ambito internazionale è sempre complesso… d’altra parte siamo popolo di navigatori, poeti, di artisti, di eroi, di santi… non di diplomatici!
Monti ha anche ringraziato la stampa per aver mantenuto il massimo riserbo sulla vicenda. Ora il plico verrà naturalmente distrutto o buttato nel dimenticatoio di qualche ufficio e gli italiani non potranno mai sapere se si è pagato un riscatto.
I quattro giornalisti si trovano ora in Turchia e presto faranno rientro in Italia.
Sul sito www.viaggiaresicuri.it, curato dall’Unita’ di crisi del ministero degli Esteri, si legge che, a causa dell’aumento della tensione politico-diplomatica nella penisola coreana, ”si suggerisce di posticipare temporaneamente eventuali viaggi in Corea del Nord”. L’avviso invita inoltre a continuare ”comunque a monitorare gli sviluppi della situazione attraverso i mass media nazionali e internazionali nonchè contattando l’ambasciata d’Italia a Seul per opportuni aggiornamenti”. Mentre la Farnesina scoraggia quindi simili viaggi, le ambasciate straniere a Pyongyang non accolgono ‘l’invito avanzato dalla Corea del Nord a valutare l’evacuazione del personale perché non in grado dopo il 10 aprile di garantire la loro sicurezza nello svolgimento delle funzioni in caso di conflitto.” Le fonti diplomatiche del coordinamento del network delle rappresentanze hanno infatti riferito che, attualmente, “non ci sono motivi per andare via”. E’ inoltre diffusa la convinzione che sia necessario fermarsi per osservare l’evoluzione degli eventi.
Sono trattenuti da due giorni in Siria i quattro giornalisti Rai che erano impegnati in un reportage sperimentale, “Silenzio, si muore”, per il programma “La Storia siamo noi”. La Farnesina, che ha confermato la notizia del sequestro, segue la vicenda fin dalle prime battute, mentre il ministero degli Affari esteri ha tenuto a precisare che “Occorre mantenere il massimo riserbo” e che “l’incolumità dei connazionali resta la priorità assoluta”. Intanto sono stati resi noti i nomi dei giornalisti che sarebbero in stato di fermo perchè avevano filmato e fotografato postazioni militare sensibili. Si tratta del giornalista Rai Amedeo ricucci, del fotografo Elio Colavolpe, del documentarista Andrea Vignali e della reporter italo-siriana Susan Dabbous. Stando alle prime ricostruzioni, le loro tracce si son perse il 4 aprile, quando hanno mancato un appuntamento via skype con dei ragazzi di una scuola bolognese con i quali erano in contatto, mentre i loro cellulari gsm ed il satellitare sono diventati irraggiungibili. Nella mattinata di venerdì, poi, alcune fonti giornalistiche, sia siriane che straniere, presenti nella regione turca di Hatay e in contatto con gli accompagnatori di Ricucci, hanno riferito che i giornalisti si trovavano nel villaggio di Yaqubiya, e nord di Idlib, in stato di fermo, probabilmente da parte di miliziani fondamentalisti. I giornalisti erano entrati nella Siria controllata dai ribelli il 2 aprile, da Antiochia, e avevano in programma di rientrare ogni sera in territorio turco, mantenedosi così sempre vicini alla striscia frontaliera tra i due Paesi.
Il ministro della Esteri, Giulio Terzi, ha annunciato le sue dimissioni per la vicenda marò. “E’ risibile e strumentale sostenere che la Farnesina ha agito per fatti suoi sul caso dei due fucilieri. Ho dato informazioni a tutte le autorità di governo sugli aspetti critici del negoziato con l’India”, ha spiegato Terzi in un’informativa alla Camera.
“Le riserve da me espresse non hanno prodotto alcun effetto e la decisione è stata un’altra”, ha ricordato in Aula il ministro.
Sul rientro dei marò in India, che ha sollevato violenti polemiche, “la mia voce è rimasta inascoltata. Da ministro ho espresso serie riserve alla repentina decisione di trasferire in India il 22 marzo i due marò”.
“Mi dimetto perché per 40 anni ho ritenuto e ritengo oggi in maniera ancora più forte che vada salvaguardata l’onorabilità del Paese, delle forze armate e della diplomazia italiana. Mi dimetto perché solidale con i nostri due marò e con le loro famiglie”.
Sarebbe stato ucciso Silvano Trevisan, l’ingegnere italiano sequestrato in Nigeria insieme ad altri sei colleghi lo scorso 18 febbraio. L’annuncio è stato dato dai rapitori, fondamentalisti islamici appartenenti al gruppo Ansaru. La Farnesina sta «facendo le verifiche». «L’unità di crisi -aggiungono fonti della Farnesina- è al lavoro con tutte le strutture dello stato coinvolte».
La società di costruzioni e ingegneria civile presa di mira a Jama è la libanese Setraco. Altre vicende simili, negli anni scorsi, si erano concluse nel sangue. Tre persone rapite nella Nigeria settentrionale – un britannico e l’italiano Franco Lamolinara nel 2011 e un tedesco nel 2012 – erano state tutte uccise durante blitz delle forze di sicurezza locali e straniere che tentavano di liberarle. Intanto, nel Paese, prosegue l’offensiva contro gli islamisti.
L’esercito nigeriano ha annunciato di avere condotto un’ operazione a Maiduguri, roccaforte della setta islamica dei Boko Haram nel nord-est della Nigeria, nel corso della quale sono stati uccisi una ventina di presunti militanti del gruppo fondamentalista, oltre a due soldati.
Ieri «abbiamo assaltato una zona a Maiduguri dove si trovavano uomini dei Boko Haram – ha affermato Sagir Musa, portavoce dell’esercito nigeriano -. Dopo vari scambi di colpi di arma da fuoco sono morti una ventina» di militanti e «noi abbiamo perso due soldati, mentre altri tre sono rimasti feriti». La stessa fonte ha riferito di avere arrestato 25 terroristi dei Boko Haram.
Altre fonti hanno poi fatto sapere di avere udito diverse esplosioni ieri a Maiduguri, in concomitanza con la partenza del presidente Goodluck Jonathan, che ha effettuato una visita di 48 ore in quest’area del Paese, la prima dalla sua elezione nel 2011. I locali non hanno però fatto sapere se nelle esplosioni vi siano state delle vittime.
Le ricerche proseguiranno per una settimana. Intanto tra i parenti che attendono in una sala d’aspetto dell’aeroporto di Caracas anche la moglie del pilota, Nora Andrada.
Apprensione e paura dall’Italia per i quattro scomparsi. In attesa di un riscontro concreto, la speranza si affida a un messaggio partito in automatico dal cellulare di Guido Foresti. “Chiama ora. Sono raggiungibile” è l’unico segno di vita da quel telefonino dopo l’orario della scomparsa dell’aereo. L’sms è arrivato sul cellulare del figlio dell’imprenditore bresciano.
Intanto il giallo si infittisce. Secondo il comandante Renzo Dentesano (esperto di sicurezza in volo) sembra che i piloti abbiano voluto far perdere le tracce dell’aereo. Lo proverebbe la traccia del radar Transponder, secondo la quale il velivolo avrebbe fatto una virata e si sarebbe abbassato a pelo d’acqua. Perché? si chiede l’esperto. Si tratta di un dirottamento, come quello che era stato supposto 5 anni fa?
Sulla stessa rotta nel 2008 era scomparso un aereo con 8 italiani, mai ritrovati. Un altro aereo con 2 italiani era scomparso nel ’97. Si sta perlustrando un area di circa 300 miglia quadrate.
La Farnesina aveva comunicato l’inizio delle ricerche, supportate anche dalla Guardia Costiera del luogo. Si è in seguito appreso che i quattro italiani facevano parte di un gruppo di sei persone: gli altri due connazionali stavano viaggiando su un altro veivolo. A bordo del piccolo aereo si trovava anche Vittorio Missoni, figlio dello stilista Ottavio.
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