
Uno scandalo di cui a Roma si è sempre parlato, anche se nessuno aveva mai indagato fino in fondo. C’era anche chi riteneva che fossero le solite “bufale” o “voci di corridoio”, in realtà bastava davvero che a chiedere l’annullamento della multa fosse un’autorità e senza nessuna istruttoria né controllo la sanzione veniva eliminata. A via Ostiense quando la Procura ha voluto vederci chiaro ha trovato un ufficio nel caos. Ora dettagli emergono dai verbali d’interrogatorio di Tiziana Diamanti e Angelo Vitali, l’impiegata e il funzionario finiti in manette lo scorso maggio, con l’accusa di soppressione di atti pubblici. E’ stata la stessa Diamanti ad alzare il velo sulla legge che consente ai parlamentari di non pagare le multe. Esiste infatti un articolo che prevede l'”improcedibilità” e l’impiegata essendo diventata dal 2000 la referente della Camera dei Deputati si doveva occupare proprio dei ricorsi alle contravvenzioni che prevedevano l’applicazione di tale articolo. Nel verbale si legge come la stessa imputata avesse chiarito che la situazione fosse diventata insostenibile «A un certo punto non ce la facevo più, ho detto: guardate io con la Camera dei Deputati vorrei smettere, perché mi chiamano a casa, vogliono questo, quell’altro».
E’ ancora la Diamanti a chiarire che le multe venivano annullate senza seguire nessun criterio che invece la legge prevede come ad esempio se i parlamentari o i consiglieri regionali passano con un semaforo rosso, la sanzione in nessun caso può essere annullata. Ma ad Ostiense bastava solo dire chi fosse il contravventore e immediatamente la multa scompariva. Un vero e proprio canale privilegiato come lo ha definito la stessa Diamanti. Dal 2011 i verbali non arrivavano neppure più in Prefettura, ma venivano cestinati direttamente. L’impiegata ha sottolineato che lei obbediva a un ordine preciso che le era stato impartito dal suo superiore, Angelo Vitali, che interrogato a Regina Coeli ha dichiarato di aver “semplicemente” fatto una cortesia al Prefetto: «il Prefetto mi ha detto: dato che gli archivi sono sotto sequestro, dato che mi sono crollati degli archivi, fammi la cortesia di non trasmettermeli perché tanto sono tutti articolo 4, sono organi istituzionali».
Chiaramente né l’impiegata che sostiene di aver ricevuto un ordine, né Vitali che sostiene di aver dovuto fare un favore possono essere assolti, ma delineano come, in alcuni uffici, neppure ci si accorga più delle violazioni di legge che giornalmente vengono compiute. Si è persa l’etica di riconoscere quando un ordine imposto dall’alto non possa essere eseguito perché contra legem. Inoltre in quelle liste c’erano soggetti che non potevano usufruire dell’articolo che prevede l’improcedibilità. Come i fratelli Bernabei, gli imprenditori di Trastevere che hanno denunciato taglieggiamenti da parte di quattro vigili ora sotto processo. Erano stati inseriti, come altri privilegiati, perché sul loro ricorso figurava quella che gli inquirenti definiscono una «pezza d’appoggio»: una dichiarazione istituzionale, o un contrassegno comunale, che nessuno aveva controllato. Vitali fa un esempio: bastava che un commissariato dichiarasse «che la vettura sanzionata veniva utilizzata per indagini di polizia giudiziaria. Il Prefetto in quei casi archivia».
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