
Ecco la camicia verde dal marchio inconfondibile fotografata tra i calcinacci del Rana Plaza, il palazzo di 8 piani collassato il 24 aprile che ha causato la morte di almeno 501 operai. Le verità emergono e si scoprono pian piano le industrie tessili che facevano lavorare i propri operai senza le più elementari condizioni di sicurezza. Una di queste è la “United Colors of Benetton“. In un primo momento l’azienda tessile si era dichairata estranea, ma poi ha dovuto ammettere (anche se con molti ma e se) che un subappaltatore in quel palazzo esisteva. In un tweet l’azienda veneta spiega “Il Gruppo Benetton intende chiarire che nessuna delle società coinvolte è fornitrice di Benetton Group o uno qualsiasi dei suoi marchi. Oltre a ciò, un ordine è stato completato e spedito da uno dei produttori coinvolti diverse settimane prima dell’incidente. Da allora, questo subappaltatore è stato rimosso dalla nostra lista dei fornitori“. E’ stato rimosso anche perché probabilmente quegli operai sono tutti morti.
Nell’elenco altre tre aziende italiane: la Itd Srl, la Pellegrini Aec Srl e la De Blasio Spa, ma non è chiaro se al momento dell’incidente vi fossero ancora rapporti di lavoro in corso. La Pellegrini, anzi, specifica che le ultime commesse con la ditta bengalese risalivano al 2010. Un’altra ditta, Essenza Spa, che produce il marchio Yes-Zee, ha confermato di essersi rifornita al Rana Plaza. Ammissioni sono quasi subito arrivate anche dall’inglese Primark, dalla spagnola Mango (che ha confermato di aver ordinato merce per 25 mila pezzi), mentre France Presse ha rinvenuto indumenti griffati dall’americana Cato. La lista però è molto più lunga: la Clean Clothes Campaign, ong con sede ad Amsterdam, ha fatto sapere che la britannica Bon Marche, la spagnola El Corte Ingles e la canadese Joe Fresh hanno tutte confermato di essere clienti delle manifatture crollate. Un’altra società, l’olandese C&A, ha spiegato a France Press di non avere più rapporti con il Rana Plaza dall’ottobre 2011.
Insomma Benetton non è sicuramente l’unica, ma lo shock rimane per le pubblicità e l’etica fino a oggi portate avanti dall’azienda che invece si è rivelata insensibile, anche dopo l’incidente continuando a negare l’evidenza. La crisi è innegabile ma non giustifica il lavoro sottopagato e ile condizioni di sicurezza inesistenti nelle quali dovevano operare gli operai di Dacca.
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