Veltroni torna alla sua “primordiale” passione e accusa il Pd

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Walter Veltroni sta girando un documentario dal titolo “Quando c’era Berlinguer”. Torna così alla sua “primordiale” passione che aveva abbandonato per la politica. Ora però riesce a coniugare insieme cinema e politica e a parlare della realtà di oggi facendo un salto nel passato. D’altra parte l’oggi ha molte incognite come spiega lo stesso ex segretario del Pd:

“temo si stia dando l’impressione che abbiamo già vinto le elezioni, e l’unico problema sia ripartire i posti del governo che verrà. Sinceramente, lo eviterei», dice Veltroni che aggiunge: «Perché vedo una certa leggerezza nell’affrontare la durezza di questo momento storico in Occidente, come se fosse una fase ordinaria. La politica dovrebbe analizzare tutti gli elementi di un passaggio d’epoca sconvolgente. Invece prevale dovunque la politica dell’istante, senza passato e senza futuro, proiettata nella polemica del giorno. Tutto è gridato, tutto è personalizzato, con la violenza di polemiche che per il solo fatto di esistere finiscono sui giornali».

Alla domanda del giornalista del Corriere della Sera che gli chiede se è da tempo che vige questa triste realtà, l’ex sindaco di Roma risponde così: «Sì, ma ora rischiamo di caricarci di una responsabilità storica molto pesante: sottovalutare l’effetto del combinato disposto tra recessione e crisi istituzionale. E questo non vale solo per l’Italia. Mi piacerebbe che si guardasse la situazione come dall’alto, per cogliere tutti i cambiamenti rispetto al ‘900. La recessione, che dura da un tempo tanto lungo dall’averci fatto dimenticare quando non c’era. L’invecchiamento di tutta la popolazione europea: oggi in Italia ci sono la metà dei bambini rispetto agli anni 70. Il mutamento della composizione delle società occidentali: la politica è ferma all’idea dei blocchi sociali consolidati, statici, mentre ora durante un’esperienza di vita si cambia orizzontalmente e verticalmente, si cambiano lavori e condizioni sociali, più a precipitare che a crescere. L’assedio di una società a copertura totale e permanente della comunicazione, con l’elevatissimo grado di condizionamento che la gigantesca rete comunicativa comporta su ogni discorso pubblico».

Non vorrà dire pure lei che si stava meglio negli anni 70.
«No. La società di oggi potenzialmente ha dentro di sé tutte le risorse per essere la migliore delle società possibili: non ci sono mai stati un così lungo periodo di pace in Occidente, tanto sapere diffuso, tanta tecnologia, tanta lunghezza della vita. Ma le rivoluzioni tecnologiche postulano la capacità della politica di saper trovare i nuovi equilibri. È stato così dalla rivoluzione industriale in poi. Oggi sento la difficoltà delle democrazie a governare una società strutturata come quella moderna. E se la democrazia non decide, muore. Lo si vede nel più consolidato dei modelli, quello americano: per la prima volta, quella democrazia si dibatte con la sensazione che non esista più, per dirla con Schlesinger, la “presidenza imperiale”. In Francia, nel totale disinteresse il primo partito è il Fronte xenofobo e antieuropeo di Marine Le Pen mentre appare in crisi l’esperienza di gauche traditionelle di Hollande. L’estrema destra cresce in Grecia e in Austria. La socialdemocrazia arretra in Germania e nei Paesi scandinavi. Alle prossime elezioni europee rischiamo di avere un Parlamento antieuropeo. E in Italia la destra, con tutto quello che ha combinato, è in testa ai sondaggi».

Perché, secondo lei?
«La sinistra è sempre andata meglio nelle fasi di espansione economica. Le fasi di recessione sono sempre state un’occasione per la destra. Si reagisce alla recessione su una linea di isolazionismo sociale e di disinteresse per gli altri. Prevalgono posizioni che tendono a difendere la propria condizione individuale, spingono all’odio verso gli immigrati, animano pulsioni di egoismo sociale, di superiorità identitaria. La mia paura è che si stia facendo strada nel nuovo millennio un modello diverso dalla democrazia, una forma semplificata di decisione politica, di cui Russia e Cina sono la testimonianza più evidente».

Come le sembra la campagna di Renzi?
«Penso che Renzi abbia l’ispirazione giusta, capisca che questa non è una fase ordinaria, sappia che l’Italia non può essere governata con palliativi paternalistici, ma ha bisogno di riforme radicali che scuotano i conservatorismi di ogni specie».

Cosa gli manca, invece?
«A Renzi ho detto, pubblicamente e privatamente, che deve trasferire al Paese l’idea di coltivare quella che per me è la parola-chiave della nostra stagione storica: profondità. Tutto in Italia è molto leggero, volatile, privo di radici e nello stesso tempo di prospettiva. Non basta mettere insieme pezzetti di programma; ci vuole una visione generale, un’idea dell’Italia. Quello che Renzi deve fare è ribaltare il modello di politica che la destra ha imposto nei toni, nei linguaggi, persino nella rapsodicità di un discorso pubblico di continuo spezzettato e contraddetto».

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Le pare che questo Pd sia in grado di parlare a tutti gli italiani?
«Il Pd per me deve tornare a lavorare su quello che cercai di fare nel 2008: riscrivere il rapporto tra finalità e ideologia. La storia della sinistra italiana è stata grande perché legata a una storia di liberazione, di diritti, di riscatto. Il suo limite oggettivo è stato il legame storicamente determinato con l’ideologia. Dopo l’89 queste due cose potevano virtuosamente separarsi. L’impressione, specie negli ultimi anni, è che si siano perdute ambedue. Dobbiamo recuperare la sostanza dell’identità di una sinistra riformista: la battaglia per l’uguaglianza, nel senso che le attribuiva Bobbio; l’uguaglianza delle opportunità».

Nell’attesa, il Pd è considerato il partito delle tasse.
«Il Pd non deve essere il partito delle tasse. L’Italia non può reggere l’attuale pressione fiscale. Resto convinto che la strada sia pagare meno, pagare tutti. Il contrasto all’evasione e il calo della pressione fiscale devono andare di pari passo, insieme a una radicale riduzione della spesa pubblica. In Italia ci sono due tassazioni, una economica e una burocratica; e la seconda non è meno onerosa della prima. Tante imprese chiudono o non nascono perché sono oppresse dalle tasse e dalla burocrazia, fatta per consentire la corruzione. La lotta contro il conservatorismo passa da qui».

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L’omaggio di Veltroni alle sue origini “Quando c’era Berlinguer”

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“Per me è un modo di ricomporre due grandi amori della mia vita: il cinema e Berlinguer. L’idea mi è venuta vedendo un documentario su Olof Palme, bellissimo, guardando i film sulla vita dei grandi leader, da Kennedy a Mandela. Così parlando con Andrea Scrosati di Sky abbiamo pensato di raccontare la storia dell’ex segretario del Pci”.

Ora Walter Veltroni sta rovistando negli archivi, studiando documenti e scegliendo immagini da inserire nel documentario dal titolo: Quando c’era Berlinguer. Il racconto avrà sue linee guida:  il tempo storico e un senso di rimpianto.

“Sono immerso nel mondo di Enrico, un modo di coltivare la bella politica. Non mancheranno gli aspetti critici, ma per quanto mi riguarda – dice Veltroni – i suoi dieci anni alla guida del Pci hanno trasformato la vita italiana”.

Il film di Sky Cinema (realizzato con la Palomar, seguiranno ritratti di Craxi e Moro) sarà pronto a maggio, ma potrebbe uscire prima nelle sale.

“È un lavoro che mi piace e mi spaventa”, racconta l’ex segretario del Pd, ex studente del Centro sperimentale e critico. “La memoria è un’ossessione, cerco costantemente di riannodare i fili perché sono convinto che questo tempo rischia di trasformarsi in quel ‘deserto di macchine arrugginite’ di cui parlava Italo Calvino. Berlinguer era un uomo profondo, amato dai suoi e rispettato dagli avversari. Ha avuto il coraggio di fare innovazioni durissime. Avevo pubblicato un libro con i suoi testi per capire cosa restava della sua esperienza; oggi, a trent’anni dalla morte, sarà un film a ricordarlo”.

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