Sapere che siamo sempre stati intercettati e non solo dagli americani, non può certo sminuire il problema del Datagate di oggi, ma forse può farci comprendere meglio la storia italiana, di una politica, costantemente “indirizzata” e “seguita” sin dai tempi del presidente del consiglio Bettino Craxi, durante crisi di Sigonella, tra la notte di giovedì 9 e la mattina di sabato 11 ottobre 1985. A parlare oggi è Gennaro Acquaviva, uno dei più stretti collaboratori di Bettino.
Come racconta l’Huffington in quell’occasione vi era la nave da crociera Achille Lauro – su cui i terroristi del Fronte per la liberazione della Palestina guidati da Abu Abbas avevano ucciso a sangue freddo Leon Klinghoffer, un cittadino americano disabile di 69 anni, di religione ebraica – ferma in Egitto a Porto Said. E un aereo della Egypt Air con a bordo Abbas e alcuni dei suoi uomini parcheggiato sulla pista di Sigonella dove la Delta Force, su ordine del presidente Ronald Reagan, aveva tentato un colpo di mano impedito dai carabinieri della base e dal “no” di Craxi. Per sbloccare la situazione, durante quelle ore cruciali si incrociarono centinaia di telefonate. Ma non tutte partirono dalle stanze di Palazzo Chigi.
Senatore Acquaviva, è vero che per evitare le intercettazioni lei fu costretto più volte a scendere nella Galleria di piazza Colonna per comunicare con un telefono a gettoni?
“Non era proprio la Galleria Colonna, però sì. Eravamo sicuri di essere intercettati. Poi negli anni successivi ci siamo accorti che era più il Mossad della Cia, ma sapevamo di essere sotto intercettazione”.
Come ve ne siete accorti?
“Perché la gente ha parlato”.
Cioè?
“Beh, se una volta che hai risolto il problema non sei stato ammazzato, poi la gente parla”.
Capisco. E le telefonate le faceva dal caffè Berardo?
“Ma lasciamo stare. Quello che posso dire è che il momento critico è la mattina di sabato, quando arriva la richiesta di estradizione di Abbas da parte di Reagan e il ministero della Giustizia italiano decide di rigettarla perché non ci sono prove della sua colpevolezza. Ecco, è in quel momento che Craxi ci dice che l’aereo egiziano può ripartire da Sigonella e Abu Abbas è libero di andare dove vuole”.
Poi cosa succede?
“Che a mezzogiorno Craxi informa i segretari dei partiti al governo, poi per quattro ore scompare”.
In che senso scompare?
“Che va via da Palazzo Chigi senza dire niente a nessuno, né a me, né ad Amato. Telefona ai segretari dei partiti da un telefono a noi ignoto, prende l’aereo di Stato, va a Milano e per quattro ore scompare dalla connessione con il potere. Nel senso che noi collaboratori, la batteria telefonica di Palazzo Chigi e quella del Viminale, e i servizi non sappiamo dove sia”.
Perché?
“Per non essere fermato nella decisione che ha preso, di togliere il fermo temporaneo all’aereo egiziano, svincolare Abbas da ogni obbligo giuridico nel nostro paese e comunicare il tutto agli ambasciatori degli Stati Uniti e dell’Egitto. Perché gli americani volevano che gli consegnassimo Abbas e gli egiziani rompevano le scatole dicendo che non restituivamo l’aereo non avrebbero lasciato ripartire l’Achille Lauro”.
E le telefonate?
“Beh, all’epoca noi non avevamo il telefono rosso con una linea diretta con Washington, come Mosca, Londra e Parigi. Era una roba un po’ casereccia. Peraltro, proprio dopo Sigonella la Casa Bianca decise di stabilire un contatto diretto anche con Roma, via telex. Non erano ancora i tempi di internet”.
Ma le intercettazioni le facevano lo stesso?
“Infatti se uno poteva parlava a voce”.
E in quei giorni ve ne accorgeste.
“Questo lo posso confermare. Fin dal giovedì avemmo la sensazione di essere intercettati”.
Per ovviare, cosa avete fatto?
“Abbiamo usato gli strumenti della nostra intelligenza. Parlare a voce, appunto. O non parlare affatto”.
Oppure andare al telefono a gettoni in un bar della Galleria.
“Prima di tutto non era la Galleria Colonna. E poi, senta a me, a quell’epoca le più sicure erano le cabine telefoniche pubbliche…”.