Il Festival di Roma e L’ultima ruota del carro. L’Italia e il cinema senza ali

festival-roma-tuttacronacaL’esordio alla direzione del Festival Internazionale del Film di Roma di Marco Müller è coincisa con quella che forse è stata la peggior edizione della kermesse romana, con il Marc’Aurelio d’Oro assegnato all’opera di Larry Clark, “Marfa Girl”, mai uscita in sala e distribuita solo sul web e il premio alla regia a Paolo Franchi per il fischiatissimo e massacrato da stampa e pubblico “E la chiamano estate”. Quest’anno, nella speranza di un’inversione di tendenza che possa significare anche maggior pubblico, torna popolare, nel segno della “Festa”. Il Festival inizia oggi e si concluderà il 17 novembre e il suo direttore spiega: “Tornerà ad essere un Festival-festa. Abbiamo capito la primavera scorsa che questa era la naturale vocazione di questa manifestazione e ci siamo adattati cambiando in corsa e realizzando un programma più adatto a una festa del cinema che a un Festival classico”.

Oggi madrina d’eccezione il volto femminile del cinema (e della televisione) italiano: Sabrina Ferilli. Ma sul red carpet sono già sfilati i bambini: per loro è stato infatti proiettato Plane. Per quel che riguarda i film italiani in concorso nella sezione principale, sono tre i titoli in cartellone: “I corpi estranei” con Filippo Timi alla regia di Mirko Locatelli, al suo secondo lungometraggio dopo “Il primo giorno d’inverno” (2008) presentato nella sezione Orizzonti a Venezia; “Take five” di Guido Lombardi, reduce del successo di “Là-bas – Educazione criminale” (2011), con Gaetano Di Vaio e Peppe Lanzetta; “Tir”, produzione croata-italiana diretta da Alberto Fasulo, già autore del documentario “Rumore bianco” (2008). Ma oggi è anche il giorno del film d’apertura, la commedia “L’ultima ruota del carro” di Giovanni Veronesi, con Elio Germano e Alessandra Mastronardi, già presentata alla stampa e che rappresenta l’opera più ambiziosa del regista. Dopo il sodalizio con DeLaurentiis, Veronesi ha sancito una nuova collaborazione con la Fandango di Domenico Procacci e la Warner Bros., non solo in ambito distributivo ma anche partner produttivo. Ma, come riporta Cineblog, “Il risultato, tutt’altro che spregevole, ha comunque lasciato l’amaro in bocca alla ricca platea stampa, causa una perenne e fastidiosa sensazione di prodotto ‘televisivo’. Alto, ma pur sempre televisivo. Zero gli applausi a fine proiezione.” Il film, che ripercorre le vicende tragicomiche di Ernesto, un semplice autista di camion che ha girato tutta l’Italia, ripercorre 40 anni della nostra Storia, partendo da quella della tv in bianco e nero anni ’60, a quella dalle tinte cupe anni ’70. Dai rampanti anni ’80, agli anni ’90 di Berlusconi. Ernesto, con il suo sguardo, è semplice osservatore di scandali e malaffare e tra speranze e delusioni, burrasche e schiarite, riuscirà a schivare gli ostacoli più insidiosi restando fedele alla famiglia, agli amici e ai propri ideali. Ma proprio in questo largo arco di tempo risiede il problema del film: condensare il tutto in 113 minuti di proiezione non fa che rimarcare l’impressione che si tratti di una serie televisiva mancata. Sensazione amplificata dai tanti volti televisivi qui prestati al grande schermo. Ma a Veronesi va riconosciuto il merito di essersi saputo affidare a un cast impeccabile, con Elio Germano “ultima ruota del carro” credibile e a tratti commovente, con un volto da “italiano normale” al quale gli eventi scorrono davanti ma che proseguoe con la sua vita, restando onesto ma anche povero. A fargli da contraltare Ricky Memphis, “esilarante nel pennellare i tratti di un cafone pronto a tutto pur di far soldi, un tempo di sinistra, poi socialista ed infine berlusconiano”. E forse è proprio il cast che riesce a colmare quei vuoti dati da una scarsa originalità mista a una pochezza di fondo. Forse non il film più adatto all’apertura di un festival, ma che rappresenta il cinema italiano attuale: l’incapacità di andare oltre il “quello che accade”, i soliti noti sullo schermo e una sintassi televisiva prestata al cinema. Uno dei motivi per il quale i tagli alla cultura fanno male: non permettono ai nostri artisti di volare e, così facendo, li ancorano ad una realtà desolante che non permette di far sognare neanche lo spettatore.

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