Il caso del documentario sulla “lucciola” mai trasmesso in tv: “A.A.A. offresi”

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E’ stato un anno cupo il 1981 per la storia italiana: l’esplosione dello scandalo P2, l’attentato al Papa, il rapimento Dozier e il referendum sull’aborto. E in mezzo a questo clima fece la “apparizione” (anche se poi, nella realtà, non è mai stato trasmesso) il documentario “A.A.A. offresi”, sulla vita della 27enne Veronique, di cui si erano ripresi gli incontri con i clienti a Roma, in un appartamentino al civico 50 di via San Martino ai Monti, quartiere Esquilino. Undici uomini, tra cui un poliziotto che non pagò l’incontro dopo aver mostrato il tesserino, la raggiunsero: tutti venenro ripresi con il volto oscurato, a loro insaputa. Approccio, trattativa e saluti. Tutto in 14 ore di girato. Sei sono state le curatrici del documentario, Maria Grazia Belmonti, Anna Carini, Rony Daopulo, Paola De Martiis, Annabella Miscuglio e Loredana Rotondo. All’epoca erano già note per aver realizzato “Processo per stupro”, trasmesso Rai Due. Sulla stessa rete sarebbe dovuto andare anche il nuovo documentario ma, alle 21.30 dell’11 marzo, saltò tutto: al suo posto, gli spettatori si troano a vedere il film “Grisbì”, con Jean Gabin. L’annunciatrice, Marina Morgan, legge il telegramma inviato dal presidente della Commissione parlamentare sulla vigilanza Rai Mauro Bubbico: “Invito la concessionaria alla sospensione della messa in onda della trasmissione”. Dalla censura si passa alla cancellazione del programma e al putiferio che ne è seguito: picchettaggi davanti Montecitorio, interpellanze, stampa divisa. Le sei autrici e cinque dirigenti Rai vengono accusati di favoreggiamento della prostituzione e violazione della privacy mentre per l’agente scatta l’imputazione di violenza carnale. Di Veronique si perdono invece le tracce. Nel 1985, al processo, vengono tutti assolti in primo grado. Lo stesso accade in secondo, con una sentenza che arriva dopo 10 anni. Ma già nel dispositivo della prima decisione si stabilisce anche il destino della “pizza” del documentario: “Il collegio decise di confiscarlo e la pellicola rimase nel deposito del tribunale di Roma, in quanto corpo del reato”. E “Da allora nessuno l’ha più visto nè le autrici pensarono di richiederlo. O la Rai di sollecitare una nuova messa in onda”. A vederlo, alla fine, oltre agli inquirenti solo pochi invitati chiamati dalla Rai ad una specie di presentazione prima della messa in onda.

A ricostruire l’intera vicenda, oltre a rendere noto il destino della “pizza” finita chissà dove tra migliaia di oggetti sequestrati, è stata la giornalista Francesca Romana Massaro, esperta di cinema ma con la passione per le carte da spulciare negli archivi giudiziari, e Silvana Silvestri, critico cinematografico del Manifesto. Il libro in cui è raccontata è “L’età dell’oro, il caso Veronique”, edizioni Emmebi. Riguardo la protagonista del documentario, era apparsa su Playboy, negli scatti di Roberto Rocchi. Di lei Giulia Massari, unica giornalista che sia riuscita a intervistarla in Italia, scrisse:  “Un po’ sul tondo, ma molto ben modellata, con la faccia larga, la bocca sensuale, i capelli lisci con la frangetta, impoveriti dai vari cambiamenti di colore: Veronique deve sicuramente attrarre gli uomini, o almeno quel tipo, che ama sentirsi tranquillo”. Parigina, la mamma proveniente dell’ex Cecoslovacchia, una bambina e un innamorato rimasto in Francia: per questo motivo aveva chiesto che il documentario non venisse mandato in onda Oltralpe. Disinteressata di “femminismo e politica”, nell’intervista raccontò di “avere accettato per curiosità, per fare un’esperienza ma anche per denunciare la situazione in cui vivono le donne che fanno le métier”, il mestiere. Un lavoro svolto per soldi, da “abbandonare in fretta, prima di ritrovarsi con le stimmate”. Per il suo futuro immaginava un lavoro da ceramista, assieme alla madre. Ma forse non sapremo mai se c’è riuscita…

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